En Attendant Cannes: HIROSHIMA MON AMOUR

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Hiroshima mon amour, 1959

Regia Alain Resnais

Sceneggiatura Marguerite Duras

Fotografia  Sacha Viemy (Francia), Takahashi Michio (Giappone)

Montaggio Henri Colpi, Jasmine Chasney, Anne Sarraute

Scenografia  Esaka, Maio, Petri

Interpreti  Emmanuelle Riva (lei), Eiji Okada(lui), Bernard Fresson (il soldato Tedesco), Stella Dassas (la madre), Pierre Barbaud (il padre)

Potente, immaginifico ed evocativo, il film si apre con le braccia di due amanti che si intrecciano: non sappiamo chi sono, né vediamo i loro volti.

Udiamo dapprima una voce femminile parlare di Hiroshima in un’estasi visiva di immagini e frammenti provenienti dagli occhi di ospedali, musei, luoghi testimoni di un evento storico ben definito. La voce maschile interviene dicendo: «Non hai visto niente a Hiroshima», rivelando l’aspetto simbolico del dialogo, che mira a indagare la memoria stessa, del tutto incapace di appagare l’uomo, anzi meccanismo quasi a lui estraneo. La voce della donna esplora poi Hiroshima come testimone e culla inattesa di un amore casuale, di un incontro estemporaneo. Ecco che appaiono i volti dei due amanti abbracciati: lei francese, lui giapponese.

Il loro legame li porterà a scavare, nel giro di un tempo brevissimo ma eterno, nella memoria di fatti e luoghi autobiografici: la protagonista ricorda l’episodio della morte del suo primo amore a Nevers. Hiroshima e Nevers ci mostrano così due significati di “dramma”, uno collettivo, l’altro individuale; entrambi lasciano l’uomo in uno stato degenerato di follia o oblio.

E’ interessante che tutto si svolga al tempo presente: il ricordo è reso non come una sequenza autonoma ma sfocata, così come la si percepisce nel “qui e ora”. Il tempo è dilatato: il nostro passato, pur elaborato nella coscienza, ci determina e può materializzarsi come un grido nel presente.

Resnais insiste sull’assenza di veri flashback: Hiroshima si struttura come un racconto “in avanti” piuttosto che “all’indietro”.

C’è solo un modo per uscire dall’orrore e dalla dimenticanza: trovarsi.

L’incontro estemporaneo dei due amanti simboleggia l’unione dell’io con l’ignoto. L’ignoto non si può razionalizzare: non si dà né nei musei, né nelle certezze ideologiche, né nei rapporti convenzionali, che sono una forma di conformismo. L’ignoto si deve “incontrare”, sentire soggettivamente. Solo allora il confronto con l’altro e la narrazione possono tentare di dare un senso ai fatti drammatici.

Devono essere le ragioni umane a guidarci nella memoria e non il giudizio storico, che serve a giustificare una falsa coscienza. Questa denuncia è presente nella storia della protagonista, che fu segregata dalla sua famiglia in cantina perché innamorata di un tedesco, che fu ucciso. Si oppone così il lato dell’umanità al lato delle convinzioni sociali, simboleggiate da una biglia che rotola in cantina dalla grata che comunica con l’esterno: il dolore di quel momento di prigionia si oppone al clima di gioia di tutta la popolazione, che festeggia la Liberazione dai tedeschi. Il vero dramma è sempre individuale.

Protagonista del film non è la città, né la storia d’amore: è la memoria in sé, che ci fa conoscere nella nostra limitatezza, finitezza, umanità; sconfitta di volta in volta dall’oblio, essa conserva solo l’essenza delle cose: l’istinto alla morte e l’istinto alla vita.

Il film non si propone come banale rivisitazione della tragedia di Hiroshima, ma è un’apertura filosofica al valore della vita e dei rapporti, che dischiude una dimensione talmente sottile e emozionale da cogliere il sublime. Quel sublime che per Aristotele «trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’estasi: perché ciò che è meraviglioso s’accompagna sempre a un senso di smarrimento».

Un’apoteosi della forza dell’incontro.

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Webmaster - Redattore Cinema

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