Factory ospita per la seconda volta giovani artisti, dedicando la manifestazione alle Visual Arts. Il titolo dell’evento richiama la peculiarità della mostra: artisti under 35 sono stati presentati da curatori altrettanto giovani. Spaziando dalla pittura alla videoarte, dall’installazione alla performance, gli spazi de La Pelanda offrono la possibilità di conoscere lavori di artisti italiani e non, che hanno scelto Roma come tappa necessaria della loro formazione.
Titolo: Visual Arts “Ho qualcosa da dire… e da fare”
Artisti: 1_MB67_11, una performance di Ynaktera & Scual a cura di Maila Buglioni.
Artisti nomadi in città d’arte, a cura di Helia Hamedani, con Navid Azimi Sajadi, Despina Chiaritonidi, Iulia Ghita, Leila Mirzakhani, Maziar Mokhtari, Yiannis Vogdanis.
Delicata mutevolezza, a cura di Martina Adami, con Milena Cavallo, Chiara Dellerba.
E’ così difficile dimenticare il dolore, a cura di Francesca Casale, con Andrea Martinucci.
Essere io non ha misura, a cura di Daniela Cotimbo, Sara Fico, Laura Loi, Giulia Zamperini, con Jose’ Angelino, Edoardo Aruta, Cristina Falasca, Ignazio Mortellaro, Franz Rosati, Sara Spizzichino, Mauro Vitturini e Arnaud Eekhout, Nicole Voltan.
Refuse, a cura di Roberto D’Onorio, con Filippo Berta, Annabella Cuomo, Silvia Giambrone, Alex Munzone.
Luogo: Ex Mattatoio di Testaccio – Piazza Orazio Giustiniani, 4
Data: 24-25-26-31 maggio e 1-2-7-8-9 giugno
Nella seconda edizione di Factory, lo Spazio Giovani del Macro Testaccio ospita sei progetti di artisti, presentati da curatori singoli o da collettivi. Maila Buglioni porta in mostra 1_MB67_11, un progetto audio di Ynaktera e Scual, appartenenti al collettivo Stochastie Resonance. Tale nome deriva dalla loro ricerca sulla risonanza stocastica appunto, fenomeno fisico secondo il quale un segnale basso diventa più forte e percepibile con l’aggiunta di altri suoni o rumori. All’elemento audio si sovrappone quello video, il cui spunto sono le esplorazioni spaziali compiute dall’uomo dal 1961 a oggi. Viene così offerta allo spettatore la possibilità di esplorare il cosmo, oscillando tra micro e macro e reagendo ogni volta in modo diverso agli stimoli sonori e visivi.
Martina Adami, curatrice di Delicata Mutevolezza, ci fa riflettere sulla precarietà dell’esistenza e dell’uomo contemporaneo. Tale progetto propone un dialogo tra le opere di Milena Cavallo e Chiara Dellerba, l’una romana e l’altra di origini pugliesi; attraverso un segno sottile e delicato, le artiste tracciano la fragilità della condizione umana, in un mondo in cui l’unica costante sembra essere il cambiamento appunto. Tale verità destabilizza l’uomo, al punto che non riesce più a definire la sua identità, che a sua volta muta, come tutto ciò che la circonda. Anche il progetto Essere io non ha misura sceglie temi esistenziali, quali la perdita di sistemi di riferimento e la necessità dell’uomo di confrontarsi con ciò che va oltre se stesso. La curatela tutta al femminile propone le opere di nove artisti, ognuno dei quali interpreta a proprio modo questo bisogno umano di autodefinizione, che spesso però non viene soddisfatto. Un esempio è l’opera di Ignazio Mortellaro, Eccentricità: una matita, una corda e due chiodi per descrivere l’orbita ellittica di un pianeta; la terra non è al centro dell’universo, ma neanche il sole lo è visto che occupa uno dei due fuochi, e di fronte a questa perdita di perfezione l’uomo è nuovamente spaesato. E ancora in The Quiet Place di Sara Spizzichino, l’uomo si confronta col proprio simile, sottolineando la capacità dell’altro di influenzare le nostre scelte. Mentre Nicole Voltan con Sistema Entropia#2 e 88 Trame indaga l’universo e le sue leggi, facendo misurare l’uomo con lo spazio.
Andrea Martinucci invece affronta un tema di cronaca: E’ così difficile dimenticare il dolore, progetto curato da Francesca Casale, racconta un episodio della Primavera Araba 2011. Diciassette giovani donne furono arrestate e poi abusate dalla polizia per aver preso parte ad una manifestazione, insieme a dimostranti di sesso maschile; il tutto a porte e finestre aperte sulla strada. I loro volti disegnati sono chiusi all’interno di cubi bianchi, sui quali è apposto un foro; se si vuole conoscerli, lo spettatore deve avvicinare l’occhio, facendo una scelta ben precisa: ignorare l’avvenimento o prenderne parte, diventando testimone della storia. A completamento dell’installazione c’è un cubo bianco, con cui lo spettatore può interagire, proprio a ricordare quella stanza aperta, in cui accadde il sopruso. La storia come fonte di informazione è al centro del progetto Refuse, curato da Roberto D’Onorio: gli artisti Filippo Berta, Annabella Cuomo, Silvia Giambrone, Alex Munzone indagano il rapporto tra la cronaca e la costituzione della cultura attuale; questa è deposito di informazioni, che vengono continuamente elaborate e modificate da chi le recepisce. Ed è qui che l’uomo deve scegliere se elaborarne di nuove o assumerne di vecchie, se “l’essere ancora o il non essere più figlio dei fatti”.
A chiudere Helia Hamedani propone Artisti nomadi in città d’arte, un collettivo di sei artisti stranieri e studenti dell’Accademia di Belle Arti di Rom. La loro peculiarità è proprio questa: provenendo da un altro paese, hanno scelto il linguaggio dell’arte per esprimersi, in quanto universale e comprensibile a tutti. La curatrice si rispecchia negli artisti e nella loro abilità di saper conciliare la propria cultura con quella ospitante, generandone una nuova; chi ne viene a contatto si arricchisce e conquista la possibilità di uscire da schemi e convenzioni sociali. Ognuno a suo modo omaggia Roma come capitale secolare dell’arte: Iulia Ghita con Soffio Vitale, presenta 13 contenitori con contenuti differenti, studiandone la relazione; Despina Charitondi crea figure umane che sono nella sua mente, aggiungendo materia alla materia; e ancora Maziar Mokhtari con Apocalisse Gialla, si ispira a Le città invisibili di Italo Calvino, rappresentando una città visibile, ma solo in giallo.