Regia Martin Scorsese
Sceneggiatura John Logan (tratto dal libro La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di B. Selznick)
Direttore della fotografia R. Richardson
Scenografia D. Ferretti
Musiche H. Shore
Montaggio T. Schoonmaker
Produttori esecutivi E. Tillinger Koskoff, D. Crockett, G. Kacandes, C. Dembrowski, B. Delfina
Prodotto da G. King, T. Headington, M. Scorsese, J. Depp
Interpreti Ben Kingsley (Papà Georges), Sacha Baron Cohen (capostazione), Asa Butterfield (Hugo Cabret), Chloë Grace Moretz (Isabelle), Helen McCrory (Mamma Jeanne), Jude Law (Padre di Hugo), M. Stuhlbarg (Rene Tabard)
Durata 127 minuti
Hugo Cabret è un bambino. Vive, segretamente, nella principale delle stazioni ferroviarie di Parigi prendendosi cura degli orologi della stessa stazione. Per vivere ruba qualcosa qua e là, mentre per evitare di finire in un orfanotrofio si nasconde dall’integerrimo capostazione e dalle grinfie del suo splendido quanto temibile Dobermann. Hugo è orfano, forse non ha mai conosciuto la madre e ha perso il padre durante il divampare di un incendio nel museo in cui lavorava. Lo zio se ne frega di lui. Hugo si nasconde così dietro allo scoccare delle ore di un grande orologio meccanico e dentro la temporalità asettica dell’andata/ritorno dei treni della stazione da sempre luogo eterotopico per eccellenza e spazio dell’amalgama delle identità deprivate. Tutto ciò che gli è rimasto è un automa da riparare – questo è l’unico ricordo materiale che ha del padre il quale aveva ritrovato il robot in una soffitta del museo-. Per aggiustarlo Hugo segue le istruzioni di un taccuino annotato dal padre stesso; egli è, infatti, assolutamente convinto che l’automa nasconda al suo interno un messaggio segreto.
I suoi furti lo portano a conoscere Papà Georges, piccolo rivenditore di giocattoli in un negozio della stazione. Impaurito dalla vista del taccuino e stupito dalle abilità medicamentose che il ragazzo ha nei confronti degli ingranaggi, Papà Georges lo prende a lavorare nella sua piccola bottega. L’amicizia con Isabelle, amante dei romanzi e della poesia, figlia adottiva del giocattolaio e di Mamma Jeanne, permetterà a Hugo di mettere in funzione l’automa il quale si rivelerà essere un abilissimo disegnatore. Isabelle, infatti, porta al collo, come ciondolo, la chiave per attivare il primitivo e affascinante robot. Il primo disegno dell’automa, una luna a cui è stato conficcato in un occhio un razzo (foto 2), scena celeberrima del film Le voyage dans la lune, porta come firma Georges Méliès, vero nome di Papà Georges.
Chi è dunque, in realtà, l’umbratile e severo giocattolaio? Perché Isabelle ha la chiave per accendere l’automa? Perché l’automa si firma con quel nome? I due piccoli protagonisti, oltre a trovare le giuste risposte a queste domande, riporteranno letteralmente in vita, grazie anche all’aiuto di Rene Tabard, proprio Georges Méliès, uno dei padri fondatori dell’arte per eccellenza del XX secolo: il cinema.
Lungi dal formulare qualsiasi interpretazione, Martin Scorsese non intende, in alcun modo, definire il cinema né come finestra sul mondo, né come incredibile proiezione visionaria. Il suo film è un vero passo indietro per mostrare come il cinema sia un’esperienza creativa che mette in scena un evento artistico sempre riproducibile. L’escamotage dell’automa, privo di logos e degno di abilità illustrativa, carillon dalla scrittura –danza- sempre differente, permette non solo di unire la storia di Hugo con quella di Papà Georges, ma di raffigurare l’abilità del bambino nel riparare gli uomini quanto gli ingranaggi, siano essi fatti di muscoli, tessuti e carne, siano essi di ferro o di qualunque altra lega. L’automa è da considerare come metafora di Méliès fermatosi irreparabilmente durante la guerra e non più capace di riprendere la propria attività cinematografica. Hugo non è solo il suo meccanico, egli è il motore senza il quale gli altri ingranaggi non potrebbero mai mettersi in moto. Il rumore di un proiettore, la rielaborazione, prima di tutto sotto forma di shock, di una vita precedente oramai dimenticata, permetterà di far tornare a galla, mediante la rivisitazione di vissuti personali, il passato di Georges Méliès sotto forma di nuova esperienza fruibile. Papà Georges, a prima vista inflessibile cineclasta che vieta alla figlia di vedere qualsiasi film, si rivela essere, in realtà, uno dei partner più seducenti del proiettore cinematografico: il regista Méliès.
Hugo Cabret diviene così la favola dell’ingranaggio nella sua stupefacente e inaspettata visibilità. Se ipotizzassimo una sua ontologia dovremmo immaginare l’ingranaggio come sempre nascosto e sfuggente, alterabile soltanto da chi ne conosce i segreti. Colui che è specializzato in creazioni e/o riparazioni, ovvero chi conosce il mestiere, condensa, nelle proprie abilità, lo sviluppo di magie e segreti tramandabili soltanto alla persona che sarà in grado di avere le stesse capacità. Scorsese capovolge tutto ciò per mostrarci il cinema agli albori, un’arte allo stato nascente nella primordialità dei suoi ingranaggi.
Il regista ci indica, in una Parigi 3D, un cinema dal sapore retrò e romantico. Il film Hugo Cabret è un omaggio e un ringraziamento da parte di uno dei più grandi registi viventi. Da mago a cineasta Georges Méliès si trasfigura, da mero illusionista, nell’artefice di costruzioni filmiche, tangibili e fantastiche, che uniscono sogni realistici e realtà sognanti. Quella di Scorsese è dunque, la proiezione di un sogno realizzato: la fiaba del cinema e dei suoi primi ingranaggi attraverso l’automa Méliès e l’ingranaggio Cabret. Il messaggio segreto dell’automa scompare per far spazio alla meraviglia dell’occhio artistico e non ancora accecato del cinema.
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