Lo scorso 3 Maggio è stato proiettato alla Casa del Cinema di Roma Il colore del vento, un documentario di Bruno Bigoni sul Mar Mediterraneo. Il commovente “ship movie” indaga sulla complessa identità del Mare Nostrum, gettando luce sulle irriducibili differenze di un mosaico di culture alla ricerca di una sintesi armoniosa.
Il colore del vento, di Bruno Bigoni, Ita 2010, 75’
Sceneggiatura: Bruno Bigoni, Silvia Da Parè, Lara Fremder, Marco Villa
Montaggio: Massimo Fiocchi, Cristina Flamini
Fotografia: Daria D’Antonio, Saverio Guarna, Fabrizio La Palombara, Andrea Locatella
Musica: Mauro Pagani
Produzione: Minnie Ferrara, Bruno Bigoni
Il colore del vento è il racconto di un viaggio. Un road movie decisamente sui generis, dato che qui non è una tipica highway americana nel mezzo del deserto a costituire la nostra “strada”, ma il mare, il nostro mare, il Mediterraneo. Sulle note di Crêuza de mä – il celebre disco di Fabrizio de André cantato interamente in genovese e nato da una commistione delle sonorità di tutto il Mediterraneo – il regista indaga sulla natura fascinosa e multiforme del nostro mare, luogo abitato da molteplicità culturali che appaiono tra loro inconciliabili, ma la cui misteriosa matrice comune – suggerita, nel film, da una certa atmosfera che percepiamo in tutti i porti in cui approda la barca su cui viaggia la troupe – invita a ripensare le differenze in una sintesi dialogica e in un orizzonte di comprensione.
Da Barcellona a Tangeri, da Bari a Sousse, da Sidone a Lampedusa, da Dubrovnik a Genova, il viaggio dei nostri “marinai” scava nei vissuti degli intervistati per rivelarci il volto di una realtà che, seppure estremamente diversificata, è ovunque accomunata dal conflitto: il dramma dei marocchini di Tangeri che sognano un futuro di libertà e realizzazione nella vicina Spagna; il ricordo dell’albanese Violeta, emigrata in Italia negli anni ’90, oggi finalmente “integrata”, testimone a suo tempo della tragedia di un Albania dilaniata dalla crisi economica; la questione, più recente, degli sbarchi clandestini sull’isola di Lampedusa e delle paure della popolazione “invasa”; la storia di Ivana, ragazza di Dubrovnik, che rilegge le pagine del diario in cui, da bambina, raccontava l’orrore del conflitto serbo-croato; la “tratta” delle prostitute nigeriane sbarcate nel porto di Genova ecc…
Parentesi di splendore e speranza, in questo viaggio che somiglia a una vera e propria discesa negli Inferi, la storia di Mouna Amari, cantante tunisina, e del suo sodalizio con il musicista italiano Mauro Pagani, produttore e arrangiatore dell’album di de André che ci accompagna durante il viaggio. L’incontro tra i due dà alla luce una preziosa rivisitazione di Sidun, un brano ispirato al conflitto arabo-palestinese che racconta il dolore di un padre per la morte in guerra del proprio figlio. Il canto commovente, con alcune strofe cantate in italiano e altre in arabo, e la simbiotica commistione delle sonorità occidentali con quelle mediorientali ci fanno intravedere il segno di una possibile riconciliazione. L’armonia musicale funge da metafora straordinaria, invitandoci a ricercare la stessa armonia anche sul piano politico, superando i conflitti nel rispetto delle differenze.
Il vero pregio de Il colore del vento sta nell’intelligenza con cui tiene a bada il rischio di un concetto retorico di un’unità: Bigoni ha ben presente che la molteplicità è una ricchezza, e non un limite, del nostro mare. L’armonizzazione delle diversità dev’essere il nostro scopo, e non un annullamento di esse in una sorta di indistinto e omogeneo oceano di identità. In questo, la metafora dell’armonia musicale di Crêuza de mä, sogno melodico di un’unità dei popoli nel rispetto delle loro specificità, svolge nel lavoro di Bigoni una funzione poetica emotivamente potente, lasciando assaporare il senso di una quiete dopo la tempesta delle nazioni.