La figura della madre, resa imponente da un gioco d’ombre che ne deforma l’esile silhouette, si staglia nel buio, di spalle, come l’inquietante simulacro di una superba matrona, un fantasma originato dalle ansie di una psiche malata. La sua stessa presenza è parola vivente di condanna, che si confonde con altri sostantivi, proiettati sullo schermo, evocativi di sofferenza e di abbandono. Madre adottiva e genitrice mancata, è il primo anello di una catena irreversibile di colpe, una sorta di untrice dal cui tocco nessuno esce indenne.
La figlia, burattino semi-umano, è incatenata a una vita irrisolta, frenata da ipocriti schemi borghesi che l’hanno condizionata sin dall’infanzia. Il palco, strutturato come un ponteggio, è simbolo di questa sovrastruttura di inutili tormenti, entro la quale si può solo strisciare, traballare o cadere. La giovane donna è lì, a vomitare il suo rancore contro quella che considera la causa di tutti i suoi fallimenti.
Condivisibili o meno, le sue considerazioni cercano di andare oltre la coltre della falsità, mirando dritte al cuore. Ci si aspetterebbe, quindi, dalla madre, una naturale reazione di dolore a tanta inaspettata e imbarazzante sincerità mentre, per tutta risposta, vengono sciorinati una serie di luoghi comuni, recitati in fastidioso falsetto e accompagnati da gesti disumanamente meccanici e da espressioni idiote. A sottolineare quest’ottundimento cerebrale, un paio di inutili occhiali da sole, un rigido tailleur, pettinatura da vamp e vistosi gioielli in bella mostra. Il dialogo, oltre che desolante, sembra saltar fuori da un copione di teatro dell’assurdo.
Ma la giovane protagonista non è esente da terribili negligenze. Annusando aria di vita, decide di abbandonare il marito e la figlia Eleonora, con la complicità dell’amante. Questo misfatto determinerà la nascita di un altro figlio, un nuovo Caino, nonché la scontata fuga del nuovo spasimante. Solo l’etichetta di pazza, infamante ma evocatrice di pietà, potrebbe salvarla dalla pubblica ignominia, accomunandola a disperati casi di cronaca nera. Ma la sua condanna risiede proprio nel non esserlo.
Il tema della maternità, già di per sé complesso, viene affrontato in modo del tutto singolare da Pierluigi Marotta, autore di quest’atto unico. Con l’aiuto della regista Flaminia Graziadei, egli intreccia le problematiche della genitorialità con quelle dell’identità, arrivando a conclusioni estreme e provocatorie: l’abbandono di Eleonora da parte della madre risulta essere un atto d’amore in direzione di una duplice libertà, la sua e quella della figlia.
La scelta della protagonista di cominciare a vivere come donna, indipendentemente dalla sua funzione procreatrice, è l’unico modo di spezzare la diabolica catena del possesso e della non-vita. Suscita ilarità, in contrasto con un clima al limite dell’opprimente, la parlantina inarrestabile di Sarah De Marchi, emblema del platinato mondo borghese che, benché in conflitto, decide di continuare a essere anello di una catena corrosa ma indistruttibile.
Il messaggio, per quanto ostico, rappresenta uno stimolo di riflessione originale sulla condizione femminile. Molto convincenti gli attori.
LA CATENA DEL DANNO
Atto unico di Pierluigi Marotta
Regia Flaminia Graziadei
Con Giulia Bornacin, Salima Balzerani, Sarah De Marchi
Art direction e costumi Grazia Colombini
Video Flaminia Graziadei
Musica Michael Koumbios, Les Tambours du Bronx
Dal 14 al 26 febbraio 2012
Teatro dei contrari – Roma