Philip Glass
Album: KOYAANISQATSI (O.S.T.)
Etichetta: Island Records
Anno di pubblicazione: 2004
E’ impossibile mantenere le distanze e non essere catapultati, sensibilmente intendiamoci, nel mondo che Godfrey Reggio e Philip Glass -il primo regista, il secondo compositore di solito definito postminimalista- apostrofano con il nome di Life out Balance, Koyaanisqatsi (1983), un lavoro innovativo, ancora valido a distanza di trent’anni e che, oltre ad aver modificato il modo artistico di approcciarsi al mondo globalizzato, intende mostrare i cambiamenti risultanti dall’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Proveniente dagli inferi una voce cupa martella il nostro udito scandendo ripetutamente cinque mortali sillabe: Ko.yaa.nis.qat.si. L’ugola demoniaca brandisce, a mò di clava, un monito nei nostri confronti: il futuro rischia di essere avariato, saremo costretti a compiere scelte, a trovare vie di fuga per evitare di trasformare l’avvenire nel nostro legittimo quanto inauspicato –ma ne siamo tanto sicuri?- sepolcro.
The Grid, oltre 21 minuti di musica, è forse il capolavoro di questo album; una traccia che accatasta, in maniera acusticamente esemplare, tutte le altre composizioni da Organic a Pruit Igoe, passando attraverso Cloudscape, Resource e Vessels. Ciò che raccogliamo nelle tracce precedenti sono deliri di catartica onnipotenza, esaltazioni quasi mistiche di una oramai incalzante volontà di potenza, ansie da prestazione tecnologica, terrore per gli esperimenti andati a finire male. In The Grid alle atmosfere pacate dei primi 201 secondi, preludio inaspettato dello scoppiare fulminante di impeti sonoramente isterici, seguono un mix di lirismo e attività ipnotiche destinate a prendere vita nella nostra mente come molteplici frattali infinitamente riproducibili. Siamo noi stessi Koyaanisqatsi nell’apertura circolare e riflessiva, a volte viziosa, ma in questo caso non affatto ottundente, dei nostri sensi. A livello primordiale, questa è una musica che richiede un non so che in più, forse un’interattività; Glass ci sprona all’ascolto e ci indica di buttare lo sguardo al di fuori della nostra finestra, affacciata, oramai, sull’indefinitezza magmatica e quotidiana di un’ipertransitorietà istantanea che al di là del bene e del male possiamo definire, anche, postmoderna. The Grid è la tachicardica presa di coscienza della contemporaneità e dei suoi, per adesso indefiniti, possibili risvolti.
La struttura ipnotica del lavoro di Philip Glass è assolutamente immersiva: dentro alle immagini del film di Reggio, Glass ci munisce di un tappeto volante che sfreccia in mezzo alle automobili e tra la gente. Cavalchiamo il tappeto scoprendo la perpetua antropomorfizzazione della natura, gran cassa del continuo mutamento del pianeta Terra. Koyaanisqatsi è un continuo e perseverante peregrinare nelle diverse modalità di stati d’animo d’incandescente e ansiogena mobilità. L’assemblaggio è perfetto, la destinazione è la tecnologia; va osservato il film, va ascoltata la musica, senza cadere nel pessimismo cosmico o nel mito del buon selvaggio. La via di fuga è in realtà contraddittoriamente, già presente nelle composizioni di Glass, come via di liberazione dall’anestesia del contemporaneo attraverso l’originale tentativo di compiere un’esperienza del presente tecnologico. Prophecies è l’ultima traccia di quest’opera, una composizione che ha il tono, a un primo ascolto, del fallimentare lancio di un dardo scagliato in cielo, del rito funerario al quale, in realtà, tutta l’avanguardistica sperimentazione musicale di Glass, non consigliata ai deboli di cuore, si oppone in maniera paradossale come possibile resurrezione della sensibilità umana. Ci troviamo di fronte a un musicare avveniristico coniugato al tempo del futuro anteriore.
Nessun commento
Pingback: WIM WENDERS: IL ROCK COME VOCE DELL’ANIMA | Pensieri di cartapesta