IL FALCO
testo Marie Laberge
traduzione Maria Teresa Russo
regia Beno Mazzone
con Mirella Mazzeranghi, Massimiliano Lotti e Rosario Sparno
scena Raffaele Ajovalasit
costumi Lia Chiappara
luci Gianfranco Mancuso
Teatro Libero Palermo – Stabile d’Innovazione della Sicilia
Dal 15 al 20 maggio 2012, Teatro Belli Roma
Il regista Beno Mazzoni ripropone sulla scena, dopo più di dieci anni, il testo Il Falco della drammaturga contemporanea canadese Marie Laberge. Decide di ripresentarlo con gli stessi attori di allora. Una scelta che potrebbe forse sorprendere -considerando il fatto che il protagonista è un diciassettenne-, ma che rivela certamente un amore intenso e condiviso, anche da parte degli interpreti, per quel dramma e per i suoi tre personaggi: un adolescente (Rosario Sparno), chiuso in un carcere con l’accusa di aver ucciso il patrigno; il vero padre (Massimiliano Lotti), che il ragazzo non vede dall’età di cinque anni; una ex suora cinquantenne (Mirella Mazzeranghi), incaricata del sostegno psicologico del giovane, in attesa di giudizio.
L’omicidio di un patrigno è il pretesto drammaturgico per affrontare i temi dei rapporti familiari difficili, della solitudine, dell’incomprensione, dell’ipocrisia, dell’incapacità di amare, della mancanza di fiducia. Più ancora, ad essere oggetto d’indagine, sono le relazioni tra gli adulti e gli adolescenti, intrise di false aspettative e di luoghi comuni. Rapporti compromessi, da una parte, dalle paure infantili e spesso insensate che assalgono le persone cosiddette mature e, dall’altra, dalle responsabilità schiaccianti che sono, di conseguenza, scaricate sulle fragili spalle di chi invece, per età, avrebbe il diritto di essere accudito.
Il falco è certamente simbolo di libertà: la libertà dal carcere, ma prima ancora la libertà di pensiero, di essere se stessi, di intraprendere il cammino che si è scelti per progredire, di vivere gli affetti che si ritengono importanti. In questa pièce, tuttavia, il falco sembra incarnare più specificamente la capacità di volare in alto, di raggiungere vette sublimi, di conquistare uno spazio lassù, dove gli esseri umani, in particolare gli adulti, non sanno più librarsi; e, da quell’altezza, la capacità di vedere lucidamente, con precisione, chiaro, il mondo, ciò che sta sotto. E’ un animale-simbolo, il falco, al quale si perdona la rapacità carnivora, perché innocente, istintiva, inevitabile. E se il piccolo di falco è già in grado, da solo, di dilaniare una preda, ha pur sempre bisogno del verso della madre che lo rassicuri quando, guardandosi intorno, si sente solo e abbandonato.
Sebbene alcuni temi del testo della Laberge, quali la figura paterna che abbandona, per poi vivere di rimorsi e postulare il perdono, o l’amore transferale dell’adolescente per la donna matura o, ancora, la perdita della fede, siano trattati dall’autrice con delicatezza ma non con particolare originalità, il dramma ha una svolta estremamente interessante sul finale. Il punto di vista del protagonista, infatti, il regalo ch’egli fa al padre (e a noi) prima di scomparire di scena per sempre, si rivela capace di gettare una luce nuova sulla capacità di autodeterminazione e sull’istinto di vita dell’essere umano.