regia, coreografia e drammaturgia del suono Luana Gramegna scene e maschere Francesco Givone performers Andrea Lorena Cianchetta, Martina Garbelli, Enrica Zampetti musica Originale, Video & Live Electronics Stefano Ciardi voce Enrica Zampetti drammaturgia Zelda Marcus 23 Aprile 2015, Teatro dell’Orologio, Roma
Der Kleine Zaches, protagonista del racconto Il piccolo Zaccheo detto Cinabro di E.T.A. Hoffmann, è un essere abietto, storpio e gobbo, di una bruttezza tale da essere ripudiato e deriso dalla sua stessa madre. Zaccheo tramite un sortilegio verrà trasformato nel brillante Cinabro, una sorta di alter-ego positivo che sostituirà il suo gemello grottesco.
Come il personaggio dal quale si suppone prenda il nome la compagnia Zaches Teatro, Il fascino dell’idiozia si dichiara non “bello”, ma non per questo poco interessante. Prima parte di una Trilogia della visione, questo spettacolo datato 2009 arriva a Roma al Teatro dell’Orologio in occasione della rassegna di danza “Eden – connect the dots”, curata da giovani organizzatori e arrivata alla sua seconda edizione.
Non solo di danza si tratta in questo caso, bensì di una rappresentazione scenica dove si uniscono teatro di figura, arte del movimento, videoarte e sperimentazione sonora. Si parte da una serie di dipinti di Goya degli anni ’20 dell’Ottocento (1819-1823, lo stesso periodo della pubblicazione del Piccolo Zaches hoffmaniano), ovvero le famigerate Pitture nere, dove il pittore spagnolo, ormai vittima della sordità, rinchiuso nella Quinta del Sordo a Madrid, fissa vertigini aventi le sembianze del gigante Saturno che divora i suoi figli, una brutta vecchia calva, lottatori, figure deformi, un caprone sagomato e altre.
In questo delirio onirico e orrifico, presagio del Romanticismo ormai alle porte, Goya rivendica uno dei diritti principali di un artista: quello di creare qualcosa che non necessariamente esista nella realtà fenomenica. Figure senza logica e senza nome, corpi non tranquillizzanti, fantasmi neri. Un universo figurativo di riferimento al quale la regia di Luana Gramegna si mantiene fedele, in special modo nel conservare la sensazione di claustrofobia che si prova osservando le Pitture Nere attraverso il mantenimento di una quarta parete di tessuto nero trasparente che si interpone tra lo spettatore e la scena per tutta la durata dello spettacolo.
Accompagnate da un tappeto sonoro lieve e con stratificate percussioni, mixato a effetti noising che danno tensione drammaturgica – si muovono nello spazio figure frammentate dalla luce, manichini perturbanti, maschere grottesche e corpi pulsionali e seducenti – come quello della danzatrice Andrea Lorena Cianchetta, alla fine rapita dalle figure mostruose in una sorta di trionfo dell’abietto.
Fondamentale appare la drammaturgia della luce nello scandire il ritmo delle scene-quadro di cui è costituita la pièce, ognuna di esse richiamante uno dei quadri di Goya – è presente anche il famoso Duello rusticano – e dotata di una sua propria estetica, in un continuo succedersi di effetti luminosi di dialettica luce/nascondimento dei corpi scenici, nonché di presenze di eterogenea appartenenza, organiche e inorganiche, maschera e volto, manichino e persona. L’uso del video attraverso una proiezione di immagini indefinite e psichedeliche – tra le quali pian piano vediamo apparire la sagoma di un caprone di cui è presente anche una maschera – rappresenta l’unica nota di contemporaneità dello spettacolo oltre al dispositivo sonoro.
Un teatro che molto deve all’influenza di teatri non occidentali, tra i quali il bunkraku, che risulta permeato da una specie di naivetè, di “idiozia” nel senso di innocenza dello sguardo. Uno spettacolo che vuol rendere gli incubi di un pittore sordo senza assordare né ammutolire, una fantasmagoria casta che si mantiene nel gioco drammaturgico visuale salda, ma che manca di un reale discorso scenico; si propone come un’indagine sulle potenzialità dello sguardo e tale rimane, non andando oltre la riproduzione scenica di una serie di immagini, all’infuori di un necessario orizzonte di senso.