Orologio, dal 3 al 15 dicembre 2013, il classico Il Gabbiano di A. Čechov, regia e adattamento italiano del testo di Filippo Gili.
Il Gabbiano
di: A. Čechov
traduzione e adattamento di: Filippo Gili
regia di: Filippo Gili
con: Apollonia Bellino, Massimiliano Benvenuto, Vincenzo De Michele, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Aglaia Mora, Maria Claudia Moretti, Omar Sandrini, Vanessa Scalera, Beniamino Zannoni
fotografie di scena: Mario De Biase
Teatro dell’Orologio, Roma
C’è qualcosa di poco novecentesco e di poco russo, ne Il Gabbiano di Čechov diretto da Filippo Gili. E’ piuttosto il nostro XXI secolo che emerge, anche forse non intenzionalmente, o non sempre, dalla scena. Un XXI secolo su cui, guardando questo spettacolo, ci si sofferma forzatamente a riflettere, provando a individuare alcune differenze che rendono l’uomo di oggi per certi aspetti così diverso da quello del secolo scorso, anche nel fare teatro.
Nella rilettura del testo cechoviano, personaggi monologanti si incrociano, parlano, fendono lo spazio, ma non si incontrano mai, incapaci quasi di comunicare ad altri un disagio ad essi stessi intimamente poco chiaro. Il dialogo è un balbettio smozzicato, tipico più di questa nostra epoca che del ‘Novecento – o più precisamente degli ultimi anni dell’Ottocento de Il Gabbiano, che già preannuncia, incarnandole precocemente, le nevrosi del secolo entrante -. E’ un parlare a sé stessi frettoloso, inarticolato, a tratti così sussurrato da risultare difficilmente intelligibile, come in alcune fiction televisive. Il dramma soggettivo e autoironico, ma pur sempre profondo e radicato nell’autoanalisi, dell’uomo cechoviano si trasforma qui, nei personaggi, in un evitamento delle proprie angosce con la fuga psicologica, con il chiacchiericcio informe, con il lamento autistico, tipici davvero del nostro inizio di millennio. Il problema stesso del tempo, del suo stiracchiarsi a volte sonnolento, che in Čechov impone una dolorosa discesa negli inferi dell’intimità individuale, si trasforma nell’alternarsi un po’ meccanico di dialoghi o monologhi pronunciati a rotta di collo e di lunghissime pause. Di nuovo il XXI secolo, con le sue frenesie e i suoi vuoti, che si affaccia all’interno del teatro!
Il primo tempo scivola via incorporeo e sostanzialmente privo di dramma. Da esso nasce dirompente nel secondo, tuttavia, o forse proprio per questo, la figura poderosa di Irina Arkadina (una notevolissima Vanessa Scalera), che incarna invece a tutto tondo, e con giusto contrappunto tra peso e ironia, il conflitto quasi borderline fra un’attrice, una donna e una madre, racchiuse in una stessa persona. Una persone fragile e quindi letale. L’essere attrice del personaggio di Irina Arkadina, dà finalmente spazio sulla scena alla corporeità esplicita, all’esplosione impudica, al libero esprimersi delle passioni e delle meschinità, che fanno del teatro e dell’uomo stesso uno spettacolo degno di essere goduto e condiviso.
Oltre ad Irina Arkadina, protagonisti de Il Gabbiano di Filippo Gili sono le controscene e alcuni personaggi minori, veri piccoli gioielli d’arte, in cui il talento e il mestiere degli attori riesce a integrarsi con la direzione registica: Vincenzo De Michele è un Sorin spassoso, ma tormentato, che sostiene a tratti l’intera impalcatura scenica; Arcangelo Iannace dà vita a un Dorn magistrale, sensualmente carnale, autoironico e irridente, sereno e pago di una vita maturata nel piacere; Omar Sandrini, sul finale del secondo tempo (quarto atto del dramma), è un Medvedenko dagli accenti struggenti e raffinatamente patetici. Tra i personaggi maggiori, d’altra parte, il Trigorin di Massimiliano Benvenuto sembra uscito, con la sua nevrosi d’artista sempre sul filo della mediocrità, più dalla penna di Nanni Moretti che da quella di Anton Čechov.