di Anton Čechov
regia Fabiana Iacozzilli
regista assistente Marta Meneghetti
aiuto regia Giada Parlanti
assistente alla regia Gabriele Paupini
collaborazione artistica Matteo Latino
scene Matteo Zenardi
disegno luci Hossein Taheri
costumi Gianmaria Sposito
con Simone Barracco, Jacopo Maria Bicocchi, Elisa Bongiovanni, Luigi Di Pietro, Francesca Farcomeni, Guglielmo Guidi, Anna Mallamaci, Ramona Nardò, Benjamin Stender, Paolo Zuccari
Produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in collaborazione con Compagnia Lafabbrica Roma, 13 gennaio 2015, Teatro Vascello
Una scena ridotta all’essenziale, i personaggi appiattiti sullo sfondo come immobili figurine bidimensionali. L’incipit dello spettacolo è volutamente posticipato, costruito per coincidere con l’allestimento del dramma scritto dal giovane Konstantin Gavrilovič Treplëv (Benjamin Stender) e interpretato da Nina Michajlovna Zarečnaja (Anna Mallamaci), della quale Kostja è profondamente innamorato. La recita viene interrotta dallo scherno e dalle lamentele della madre di Treplëv, l’attrice Irina Nikolaevna Arkadina, (Francesca Farcomeni), che umilia il giovane davanti agli ospiti della tenuta Sorin. È il momento cruciale di una disfatta artistica che si estende a ciò che il protagonista ha di più caro: l’amore per Nina, che rivolgerà le sue attenzioni a Boris Alekseevič Trigorin (Paolo Zuccari), romanziere di successo e amante di Irina, e quello per la madre, incapace di comprendere un figlio che reputa un perdente.
Fabiana Iacozzilli impernia la sua regia sulla dilatazione, dai riverberi potenzialmente infiniti, dell’istante doloroso in cui tracollano tutte le speranze, infrante contro il muro di un’umanità grossolana e indifferente a ogni forma di bellezza. Le note elegiache del fallimento risuonano silenziose durante tutto il corso dello spettacolo, schiacciate dal chiacchiericcio annoiato o dal chiasso volgare dei borghesi di provincia. E quanto più si dà spazio all’iperbole e ai momenti di comicità (la maggior parte dei quali affidati alla bravissima Farcomeni), tanto più emerge il contrasto stridente tra una leggerezza che sa di decadenza e la stagnazione in una palude asfissiante.
L’attualità del testo čechoviano emerge nella rappresentazione del profondo senso di crisi che divora l’opera, così che la strada di un facile lirismo viene scartata con l’intento di percorrere sino in fondo le increspature in cui si annidano i conflitti irrisolti e irrisolvibili (lo scontro generazionale, quello tra vecchie e nuove forme, tra banalità e idealismo, tra apatia e sofferenza). Konstantin e Nina – raffigurati da Stender e Mallamaci in tutta la loro delicata consapevolezza – sono le vittime sacrificali di un’esistenza pensata solo per chi sa compiacersi del proprio sfacelo e demandare l’istanza di cambiamento a un futuro che non lo riguarda. Il gabbiano ucciso da Treplëv resta l’unico simbolo poetico a cui aggrapparsi, quel gabbiano che Nina innalza come trofeo in una gelida istantanea che accompagna il primo tentativo di suicidio di Kostja; lo stesso che, dopo lo sparo con cui quest’ultimo si toglie la vita, campeggerà sulla tavola deserta.