IL GIARDINO DISSANGUATO: JAN FABRE RACCONTA IL CONGO

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Abbandonata, alla distanza siderale di un gradino di travertino, tutta l’arte della vecchia Europa, affronto, consapevole delle difficoltà, il colonialismo belga, l’opera di Jan Fabre, Hieronymus Bosch, il Congo. E se lo sfruttamento coloniale non è un pranzo di gala, figuriamoci l’arte che lo rappresenta. Con la convinzione adamantina che ne sarei uscito con le ossa rotte prendo, dalle mani del curatore, il comunicato stampa Tribute to Hieronymus Bosch in Congo; il suo “Vuole che l’accompagno” trova subito un mio arruffato “Preferirei di no” a preparar la fanteria.
1 2 3 aux armes!

Entro nelle sale totalmente bianche e mi guardo attorno.
Anche se l’aria è totalmente invasa dal mare di verde che esplode dalle opere, mantengo la calma. Alle pareti grandi pannelli raccolgono mosaici dalle tessere di una brillantezza acida, sottili nella loro precisione, che con poche sfumature d’arancio tentano d’aiutare l’occhio a comprendere. Raccontano la Lotterie Coloniale dell’ultimo secolo, questo lo so. Ma questo VERDE non la racconta per nulla giusta. Acido, artefatto e innaturale come i ghirigori della benzina in una pozzanghera.

M’aggiro, nonostante ciò, per le sale. Ammiro l’ironia di un’opera come Negro Shits Diamonds, il suo dialogo con Slave Shits Pearl, lascio scappare un sorriso dinanzi Skull With Frog, ma da un poco già una domanda mi ronza in testa.
Dov’è Bosch in tutto ciò? Entrambi provengono dalla stessa area, ma questo non basta. Tutti e due sono dei visionari puri votati all’arte, ma anche ciò non è sufficiente a spiegare questa rilettura. Pensare, dovrei pensare meglio, di più, ma c’è quel maledetto verde che mi affoga la vista.
Nella mia personale battaglia chiedo aiuto all’arte che, come al solito, ti aiuta sotto compenso. Accetto.
Ritorno al pannello Negro With Crows, a tre metri, mi siedo in terra e lo guardo. Basta un poco e…
Aistanomai!

Questo verde è lo stesso grandioso verde del Congo! Lo stesso Congo definito da molti “il giardino di Leopoldo II”! E che cos’è Negro with Crows se non la riproposizione rovesciata dell’uccello che mangia l’uomo nel Giardino delle delizie di Bosch?

Lascio vacillare ancora gli occhi di fronte alle opere, quel che basta per farmi raggiungere dal curatore.
“Belle vero!”
“Molto, ma questo verde ha qualcosa d’innaturale, d’artefatto”.
Nei suoi occhi compaiono chiaramente le carte della mia resa senza condizioni.
“Guardi; in realtà, sono carapaci di coleotteri, vengon dall’India”.

La mostra di Fabre, come ogni sua, non riesce a definirsi in maniera normale. La sua opera, sempre alla ricerca d’un dialogo con il passato -come non ricordare il marmo di Carrara che riprende il tema della Pietà di Michelangelo con l’artista stesso al posto del Cristo-, tenta questa volta una collaborazione, molto riuscita, con le visioni e le distorsioni dell’olandese di fine ‘400 Bosch. Non è una mostra dunque, ma un viaggio-racconto che apre gli occhi sulle brutture della nostra società, sulla bellezza di una delle nazioni più povere della terra -la maggior esportatrice di diamanti- e che riesce, ancora una volta, a dimostrare che l’arte ha, nella sua capacità di cambiare il suo linguaggio, ancora molto da dire. A noi l’onere di decifrarla, per noi la bellezza di fruirla e la difficoltà di raccontarla.

TRIBUTE TO HIERONYMUS BOSCH IN CONGO

10 Novembre 2011 – 31 Gennaio 2012

foto Jan Fabre, Negro shits Diamonds, cortesy Magazzino d’arte moderna e Jan Fabre

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