L’agrimensore K., brillantemente impersonato da Ivan Franek, con il suo seducente accento ceco, si guarda intorno sperduto, proprio come lo spettatore, nel tentativo di familiarizzare con l’ambiente in cui si trova catapultato dopo un lungo viaggio. La sensazione che condivide con il pubblico è quella di sentirsi la pedina di un disegno ancora tutto da svelare, di un percorso ignoto e incomprensibile, che somiglia più a un avventuroso rompicapo che a un piano razionale e sistematico.
Tutta l’azione ruota attorno al Castello, la cui collina è avvolta da nebbia e oscurità, a significare il mistero che lo caratterizza. Cartone e legno grezzo, materiali che compongono buona parte degli ambienti dello spettacolo, sono fantasiosamente modellabili e favoriscono l’interazione attiva con lo spazio fisico, che è anche simbolico e, pertanto, mutevole. Il frequente cambiamento di postazione, questa lenta transumanza degli attori e del pubblico ubbidiente, è espressione della dimensione psicologica dell’uomo, che è alla ricerca continua di sé, della sua definizione. Kafka stesso vive come pellegrino inquieto sulla terra, come intruso in un mondo inospitale: un immondo scarafaggio. Il disorientamento del nostro protagonista, che fa esperienza di una situazione paradossale in cui è impossibile il possibile, esprime ciò che la vita è per tutti noi: un oceano che travolge, lasciando un margine minimo alla ragione, che tutto vorrebbe capire e inquadrare in precisi paradigmi. Niente è definito: ambienti e persone, per volere di una burocrazia spersonalizzante, sono ridotti al nulla (non a caso l’uso della sigla K.), al punto da diventare addirittura interscambiabili (Artur e Jeremias, Sortini e Sordini).
Ma K., combattivo e ostinato, non si lascia scoraggiare dall’evidente avversità degli abitanti del villaggio: s’impone, escogita soluzioni, difende i suoi diritti e affetti, si adatta ai continui cambiamenti di programma, finanche a diventare bidello. L’ostacolo burocratico è sia specchio di una realtà spesso inutilmente complessa sia il pretesto per generare azione all’interno di un intricato labirinto. Sembra di assistere a una sorta di videogame, un gioco interattivo, che mantiene però alcuni caratteri demodé: i sentimenti d’amore, la ricerca di calore umano e di una realizzazione professionale, la nostalgia di una casa o di sane relazioni interpersonali.
Il Castello, invece, pullula di funzionari oziosi che rendono impossibile ogni tipo di comunicazione. Così K. ha l’impressione di perdersi in un mondo estraneo dove c’è da soffocare d’estraneità, ma in cui non si poteva far altro che inoltrarsi ancora. E’ il ritratto della nostra società, tanto ricca di falsi contatti quanto imbevuta di infinita solitudine. Benvenuti nel mondo globale, dove l’individuo scompare nella massa.
In questa riflessione esistenziale Giorgio Barberio Corsetti inserisce installazioni d’avanguardia e felici colpi di genio, dando al suo lavoro il consueto tocco di unicità. Immagini proiettate sul muro, telecamere, sms inviati al pubblico da Fattore K, apparecchi telefonici che vivono di vita propria, fuoco che divampa dal nulla, fogli che volano dalle finestre dell’edificio come giganteschi coriandoli di non-senso: sono solo alcune delle ingegnose intuizioni del regista. Inventiva, dramma e divertimento si amalgamano nella rappresentazione con impressionante facilità. Complemento dell’opera è il sito www.ilcastellodikafka.it che, assieme a www.gamekafka.com, stuzzica ulteriormente la curiosità dei partecipanti.
Ma, per saperne di più, godetevi l’intervista di Gianpaolo Marcucci a Giorgio Barberio Corsetti. Sul nostro sito, ovviamente.
Il Castello
Progetto di Giorgio Barberio Corsetti e Fattore K
Liberamente ispirato all’omonimo testo di Kafka
Adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti
Con Ivan Franek, Mary Di Tommaso, Julien Lambert, Fortunato Leccese,
Fabrizio Lombardo, Alessandro Riceci, Patrizia Romeo
Dal 21 settembre al 2 ottobre 2011, Teatro India di Roma