Le premier homme (2011)
Durata 100′
Regia Gianni Amelio
Sceneggiatura Gianni Amelio
Soggetto Albert Camus
Montaggio Carlo Simeoni
Fotografia Luca Bigazzi, Yves Cape
Musiche Franco Piersanti
Produttore Marco Chimenz, Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi
Interpreti Jacques Gamblin (Jacques Corbery), Catherine Sola (Catherine Corbery), Maya Sansa (giovane Catherine Corbery), Denis Podalydès (Professor Bernard), Ulla Bauguè (la nonna), Nicolas Giraud (lo zio Etienne), Nino Jouglet (Jacques Corbery bambino), Abdelkarim Benhabouccha (Hamoud), Hachemi Abdelmalek (Aziz), Djamel Said (Hamoud bambino), Jean-Paul Bonnaire, Jean-François Stevenin.
«Credo che Il primo uomo sia un film storico. Non è un film sulla guerra di Algeria in particolare, ma su una qualunque guerra che può dividere le etnie. Certamente ho cercato anche l’attualità della guerra. Forse è il primo film che storicizza in modo preciso le due posizioni diverse sulla situazione algerina: da una parte gli estremisti che dicono che l’Algeria è francese, dall’altra i militanti che si ribellano».
È questo il commento con cui Gianni Amelio riassume lo spirito del suo Il primo uomo, tratto dall’omonimo romanzo, incompiuto e autobiografico, di Albert Camus, nonché vincitore del premio Fipresci al Toronto International Film Festival.
Sono due le storie che il regista ci propone, due le epoche, due gli scenari.
1957: Jacques Cornery fa ritorno in Algeria dove è nato e cresciuto. Il paese che lo accoglie è afflitto dall’odio, dal terrorismo, dalla violenza causata dal giogo crudele del colonialismo: da un lato i francesi rivendicano l’appartenenza dell’Algeria alla Francia in nome della democrazia, dall’altra il Fronte Nazionale di Liberazione lotta per affrancarsi dal dominio coloniale. Jacques è uno stimato intellettuale – ormai trasferitosi in Francia – che si schiera per un Paese in cui francesi e musulmani possano convivere pacificamente.
A tale contesto si lega il ricordo dell’infanzia del protagonista, attraverso la pacata ma ostinata ricerca della figura paterna, venuta a mancare durante la Grande Guerra – bisogna certo notare che l’assenza del padre avvicina l’infanzia di Cormery-Camus a quella di Amelio. Seguiamo così un Jacques bambino che cresce – e diventa uomo – imparando a usare le parole, a masticarle: inconsapevole ma non ingenuo, scopre la patria per cui suo padre è morto, la povertà in cui vive con la madre, la nonna e lo zio, la poesia del dolore e della tristezza.
Se nelle sequenze ambientate nel 1957 – quando Cormery ha ormai acquisito la padronanza delle parole – Amelio predilige lunghi dialoghi e una fotografia sobria, nelle scene dell’infanzia sceglie di incantarci con lunghi silenzi intervallati da battute tanto scarne quanto sagge tipiche dell’età scolare, di stupirci con una composizione dinamica ma pur sempre elegante. Anche la recitazione è asciutta e sincera; lo stile del regista è quello di celarsi, lasciando emergere le storie e la Storia.
All’interno di questi richiami tra passato e presente e sullo sfondo di attentati terroristici sempre più frequenti, sono due le evidenze che si palesano: lo stretto legame tra vicenda individuale e vicenda collettiva e l’importanza delle radici. «Vorrei dire agli arabi che sono pronto a difenderli fino alla fine. Ma se scaglieranno la loro rabbia contro mia madre, che ha sofferto le loro stesse disgrazie, allora io sarò loro nemico». Con questa chiusura Camus – e con lui Amelio – dichiara il suo favore per la rivoluzione, a patto che si condanni e bandisca il terrorismo. «Quello che non vi ho detto a scuola quando spiegavo l’Impero Romano è che si può anche stare dalla parte dei Barbari» – dice il professor Bernard, a cui va il merito di aver incoraggiato Jacques a continuare gli studi, ma soprattutto di aver instillato nel protagonista una solidarietà consapevole.
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