Gianni Canova, professore alla IULM di Milano, è critico e semiologo cinematografico, ha diretto fino al 2010 il mensile di cinema DUE, ha dato il suo contributo per quotidiani di spessore come La Repubblica, Il Corriere della Sera e La Voce, ha scritto diversi libri sulla settima arte e un romanzo dal titolo PALPEBRE. Attualmente è critico ufficiale Sky Cinema.
Negli ultimi tempi, nel mezzo di opere potenti e anche innovative come Inception, Inland Empire, The Tree of Life, vi sono tanti buoni film ma anche molta confusione, a livello globale. Ciò è dovuto al fatto che siamo in una fase di transizione, amplificata dalle innumerevoli e preziose risorse del digitale che per forza di cose hanno bisogno di tempo per potersi sviluppare adeguatamente? In funzione di questo, pensa che il 3D abbia già esaurito le proprie risorse o che sulla scia degli entusiasmi degli ultimi Pina e Hugo si possa pensare ad uno sfruttamento più intelligente del mezzo?
Penso che siamo nel mezzo di una mutazione irreversibile, penso che stia finendo un mondo. Penso che il cinema sia morto senza possibilità di resurrezione, quel dispositivo che consisteva nell’immobilizzare il proprio corpo di fronte ad uno schermo gigantesco, vivendo delle emozioni, non esiste più. La maggior parte dei film vengono visti su monitor, display, schermi, e tutto questo porterà alla morte del cinema per come noi lo conosciamo. Sopravviveranno film molto diversi da quelli che Hollywood ha prodotto finora. La confusione è turbolenza che si avverte nell’aria e che tutti percepiscono ormai. Non sono delle opere-mondo, come il notevole INCEPTION, fra quelle che tu hai citato, che cambieranno il mondo stesso. Non a caso hai citato anche INLAND EMPIRE che però è uscito 5 anni fa. Io penso che il 3D sia lungi dall’aver esaurito le proprie possibilità e credo che quei due prodotti siano proprio quelli che vanno in avanscoperta. Lì si denota il fatto che per la storia che raccontano e per i mondi che mettono in scena, il 3D sia una tecnologia necessaria. Non è così con AVATAR.
Steve McQueen, Nicolas Winding Refn, David Michod, Lynne Ramsay, Nicolas Provost, lo stesso Nolan, nella schiera dei nuovi talenti, fra quelli più giovani, ho visto e capito che curano molto l’aspetto auditivo dei loro film (montaggio sonoro in toto, musiche, suoni, rumori, persino silenzi), cosa che a me personalmente piace molto e che trovo molto cinematografica, essendo un grande fan e sostenitore del cinema di Bresson, in particolare per questo specifico aspetto. Cosa ne pensa del cinema dei suddetti registi? Ne aggiungerebbe altri alla lista, in questo senso?
Trovo che questi registi siano tra i più interessanti oggi in circolazione. Trovo molto interessante e profondamente innovativo SHAME. Mi convince meno, nel solco di una nobile tradizione, DRIVE, pur riconoscendo ad entrambi la nobiltà di una fattura di un certo livello. Fra i registi aggiungerei J.J. Abrams perché il suo SUPER 8 è uno dei film più interessanti degli ultimi anni. Amo molto il meticciato nei film. Preferisco gli ibridi alle cose troppo definite. Aggiungerei Paolo Sorrentino, fra quelli italiani.
In Italia, nonostante abbiamo grandi professionisti del settore e anche ottimi registi, questo aspetto viene lasciato quasi sempre, e molto, in secondo piano, a favore di un cinema che è l’equivalente del teatro filmato o peggio ancora, piattamente e democraticamente televisivo. Difatti, uno dei pochi, se non l’unico che in Italia lavora molto nel senso audio-visivo, è Franco Piavoli, che fa pochi film e autoprodotti, praticamente sempre fuori del sistema. È d’accordo con la mia visione delle cose?
Sono abbastanza d’accordo. Il cinema italiano deve dare la scossa, deve uscire dai modelli produttivi perseguiti finora, deve rinnovare il tipo di storie che racconta, deve smettere di avere come unico tema la messinscena dei sentimenti, deve avere il coraggio di riscoprire le produzioni indipendenti, deve valorizzare di più la potenza visionaria di registi come Frammartino o Marcello, quindi lo stesso Piavoli da lei citato per primo. Bisogna cominciare a porsi seriamente il problema di realizzare prodotti validi sotto tutti i punti di vista. L’uscita del film in sala è un attracco per altri media, non un’esperienza unica e a sé stante. Alcuni dei più grandi registi in attività oggi sono italiani, aggiungerei anche Garrone e Bellocchio a Sorrentino; questi registi hanno una maturità che ha pochi eguali nel cinema mondiale. Manca l’industria, la capacità, la consapevolezza di trasformare il talento.
Non ricordo bene dove, ma una volta ha dichiarato che i suoi generi preferiti sono l’horror e il melodramma. L’horror, che adoro, per la sua capacità di fondersi con tutti gli altri generi, persino con il comico, è secondo me un pò la “puttana” dei generi. Può motivare brevemente queste sue passioni, se corrispondono alla verità? Restando in tema, non trova che la fusione del lirismo con la violenza, quindi del melodramma con l’horror, sia quanto di più affascinante e suggestivo ci possa essere in un film? Non per niente anch’io mi sento un cronenberghiano.
Certo. Ha citato lei il nome. Il regista che offre una sintesi perfetta di questo è proprio Cronenberg. Uno che ha sempre mescolato i due modi di sentire, perché io preferisco chiamarli a questo modo, piuttosto che generi. Hanno a che fare con il tema della mutazione, corpi che mutano e che diventano contemporaneamente ripugnanti e affascinanti. E lo stesso il melodramma che racconta di persone che s’innamorano e che mutano i loro modi di comportarsi. Quando le due cose si fondono allora si raggiungono grandi emozioni. Trovo che anche l’ultimo film di Cronenberg sia molto interessante, perché si tratta di un film sulla parola e sull’impotenza della stessa, sul suo essere un elemento virale. Per il melodramma penso a Douglas Sirk che ha fatto melodrammi devastanti, regista poco conosciuto e male, ha fatto suo il motto, che è anche di Fassbinder, altro grande regista di melò, per cui: i film ti liberano la testa. A proposito di David Cronenberg, recentemente ho scritto un romanzo dal titolo PALPEBRE, che proviene proprio da quel mondo lì, influenzato tantissimo dai film del regista canadese. Il libro ha avuto opinioni molto contrastanti: esaltazione assoluta o rifiuto categorico.
In “L’alieno e il pipistrello” la sua analisi spazia soprattutto fra Alien e Batman, come allegorie del potere e del sotto-potere che muta in continuazione e non è mai definibile né tantomeno raggiungibile. Che pista di lettura dà, parafrasando un altro suo pregevole libro, della personale operazione che sta facendo Christopher Nolan, riguardo la trilogia sul cavaliere oscuro?
Cambia tutte le carte. Il mio libro è di dieci anni fa, si fermava ai primi film della saga. Nolan tira fuori il versante assolutamente dark di Batman che già un pò era stato accarezzato e coccolato da Tim Burton ma che Nolan spinge a limiti estremi. Esce fuori il paradigma della postmodernità. I primi Batman erano fatti di elementi che in quello di Nolan non ci sono più.
Il regista più sottovalutato e quello più sopravvalutato della storia del cinema?
Su tutti Steven Soderbergh e Alexander Payne, sono senz’altro fra i più sopravvalutati. Douglas Sirk e John Cassavetes fra i più sottovalutati, come del resto molti registi della New Hollywood sono stati dimenticati troppo in fretta e penso soprattutto ad Arthur Penn e Sam Peckinpah. Per quel che riguarda l’Italia credo che siano stati molto sottovalutati Mario Bava e Antonio Pietrangeli, anche se in parte, il primo dei due, abbia avuto comunque una post-fascinazione da parte della critica; sopravvalutato Nanni Moretti, assolutamente.
Il suo film di culto è Ultimo tango a Parigi. Perché? Ne ha soltanto uno? Dato il periodo, se dovesse consigliare ai lettori il suo cult-movie religioso?
Il mio cult-movie religioso è L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO di Scorsese assieme a LA RICOTTA di Pier Paolo Pasolini. Gli altri miei film oggetto di amore viscerale sono quelli che non rivelerò mai neanche con una pistola alla tempia, purtroppo è uscito il film di Bertolucci, ma gli altri me li tengo gelosamente per me. Del resto non ci si chiede mai perché ci s’innamora di una donna.