Il Festival Internazionale del Film di Roma ha ospitato Wim Wenders. Il regista ha presentato con una conversazione/intervista con Mario Sesti, di cui riportiamo le parti più importanti, il suo ultimo film: The Salt of the Earth.
La fotografia parla anche di chi fa quella fotografia. Come?
Wim Wenders: «È come se nella fotografia ci fosse un controcampo incorporato. Questo effetto di controcampo è invisibile ma riusciamo a percepirlo. Ho conosciuto il lavoro di Salgado e nel suo controcampo vediamo l’avventura, l’amore per il suo mestiere. Per scoprire tutto ciò ho deciso d’incontrarlo e di fare un film su di lui. Per una volta ho deciso di sollevare questo velo invisibile e di fare un film sul controcampo».
Viaggiare e fotografare sono strettamente uniti. Si può affermare che Salgado sia un esempio perfetto di quest’accoppiata? Non ci dimentichiamo del fatto che lui passa moltissimo tempo nei luoghi in cui viaggia.
W. W.: «L’aspetto del tempo è fondamentale per quest’avventura intrapresa. Avevo ipotizzato che in un paio di settimane potessi fare il film, ma non è stato così poiché ho scoperto che Salgado aveva un senso del tempo completamente differente e la volontà di arrivare a un grado di verità straordinario».
All’inizio le piaceva il cinema perché all’interno pensava ci fosse la verità della fotografia, ma era sospettoso nei confronti del montaggio e del racconto a causa della perdita dell’originario hic et nunc accidentale. Tuttavia di fronte alle immagini di Salgado non si può non notare come ci sia in esse tantissimo cinema poiché esse toccano il punto di congiunzione tra realtà e finzione.
W. W.: «La prima volta che ho visto le foto di questa miniera d’oro – Serra Pelada – ho avuto l’impressione di essere di fronte a un enorme set cinematografico. Se si guardano attentamente queste foto si nota una forte complicità tra il fotografo e questi uomini. Vi racconto un episodio: inizialmente quando ha cominciato a scendere queste scale Salgado ha percepito una forte ostilità nei suoi confronti, come se gli uomini non volessero essere visti. Successivamente Salgado è stato arrestato. […] Poi è tornato e tutti hanno cominciato a battere forte i piedi poiché avevano capito che non era amico della polizia. Si è creata una perfetta complicità tra lui e loro. Salgado racconta come se fosse un regista: campo lungo, primi piani, fotografie dall’alto. In ogni fotografia vediamo un frammento di tempo che insieme agli altri crea una serie che assomiglia a un film».
Lei ha raccontato che ha avuto difficoltà a inserire Salgado nel film. Successivamente ha capito che la cosa migliore era registrare le impressioni e le reazioni del fotografo di fronte alle sue stesse fotografie. Salgado così ci mostra il suo tremore, le sue stesse sensazioni.
W. W.: «Questo film è stato girato due volte. La prima per moltissime settimane con due telecamere e una terza per le sue foto. Il carico emotivo diventava fortissimo nel momento in cui guardava le foto, poi quando incrociava il mio sguardo entrava in un discorso quasi didattico. […] Nella seconda parte abbiamo adottato una sorta di camera oscura, più consona a un fotografo, e quello che nel gergo televisivo si chiama gobbo. Tutto quello che vedeva erano le sue foto. Salgado guardava in uno schermo trasparente le sue foto, ma guardare le foto gli permetteva di guardare la mdp. Si è creato così un effetto d’intimità poiché lui non mi vedeva».
C’è un concetto del cinema contemporaneo che indica come il guardare abbia sempre una connotazione morale. Attraverso il guardare si può assumere una posizione precisa: non il guardare come risarcire ma come la costituzione di un’intimità immaginaria. Questo è il film nel quale lavora meglio con questo concetto?
W. W.: «La sequenza dedicata al Sudamerica è particolarmente lunga perché è proprio lì che Salgado ha cominciato a fare il fotografo. Lui non aveva il permesso di tornare in Brasile a causa della sua partecipazione ai movimenti di protesta di sinistra. Così, per sentirsi vicino a casa, si è avvicinato così tanto al suo paese natale ed è poi scomparso per mesi».
La storia di Salgado è la storia di una famiglia in cui il padre scompare per anni. La moglie di Salgado lascia il suo lavoro per permettere al marito di fotografare. Lei racconta questo e il rapporto con il figlio con molta discrezione…
W. W.: «Ogni famiglia è un po’ particolare e il rapporto padre-figlio è molto speciale. Il figlio, Juliano, è cresciuto con un padre che stava lontano per mesi. La forza trainante del lavoro di Salgado è la moglie. Juliano non conosceva il padre, poi ha deciso di diventare un documentarista e di viaggiare con lui. Insieme, io e lui, abbiamo potuto realizzare un film complesso, con due punti di vista differenti».
Nel frammento sull’Africa c’è l’unione di due cose completamente differenti. La bellezza delle foto di Salgado e la grandezza con cui lei le ha raccontate ricongiungono la bellezza del mondo e nello stesso istante la drammaticità di ciò che ci troviamo a guardare.
W. W.: «Nel corso della sua carriera Salgado è stato criticato da chi vedeva nel suo modo di fotografare una modalità estetizzante. […] Io credo che piuttosto di parlare di foto belle sarebbe corretto parlare di foto giuste. Certo una foto può essere ben fatta, però non era questo il suo scopo, non la ricerca della bellezza, ma della verità. Per me questo era il suo modo di mostrare la dignità. Penso che sia essenziale che la gente veda queste cose e l’unico modo per farlo è con dignità. Le uniche cose che contano sono rispetto e dignità».