Una intima e geniale prospettiva folk precedente l’avvento di Bob Dylan sulla scena musicale dell’epoca: è questo Inside Llewyn Davis, vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria all’ultimo Festival di Cannes. Il film, in uscita in Italia il 6 Febbraio è l’ultima opera del “regista a due teste”, all’anagrafe Joel e Ethan Coen.
Inside Llewin Davis (A proposito di Davis), di Joel & Ethan Coen, USA 2013
in uscita nelle sale cinematografiche il 6 Febbraio
Sceneggiatura: Joel ed Ethan Coen
Produttori: Joel ed Ethan Coen, Scott Rudin
Casa di produzione: Mike Zoss Productions, Scott Rudin Productions, StudioCanal
Distribuzione (Italia): Lucky Red Distribuzione
Fotografia: Bruno Delbonnel
Scenografia: Jess Gonchor
Cast: Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund, F. Murray Abraham, Ethan Phillips, Robin Bartlett, Max Casella, Stark Sands, Jeanine Seralles, Jerry Grayson, Adam Driver, Alex Karpovsky
Inside Llewyn Davis è una pellicola che s’inserisce perfettamente all’interno di quel quadro ben delineato dalla precedente e autoriale filmografia dei due fratelli cineasti indipendenti americani.
«Perché qualcuno dovrebbe picchiare un cantante folk?» È da questa frase che nasce la pellicola, ispirata al libro The Mayor of MacDougal Street del musicista folk Dave Van Ronk e che ci trasporta in una settimana della vita di Llewyn – uno straordinario e intonato Oscar Isaac –, squattrinato musicista folk speranzoso di sbarcare il lunario. Siamo nella New York della fine degli anni ’50 inizio anni ’60, gli stessi di The Hudsucker Proxy, ma in uno scenario completamente differente dal film del 1994. Ci troviamo, infatti, all’interno del Greenwich Village, epicentro, in quegli anni, del folk revival.
Llewyn – nome molto simile a quello del protagonista di No Country for Old Men – è decisamente più affine, “artisticamente” parlando, al concetto di musica come pura professione piuttosto che a quell’utopia sognante, e forse un po’ mitica, che indica la musica come espressione gioiosa dell’animo. È un ragazzo testardo che vuole andare ben oltre «l’esistere e basta» e a quei vincoli che molto spesso sembra essersi autoimposto anche a causa di una incompleta maturità che si coagula perfettamente con il suo essere portatore (in)-sano di una dose massiccia di sfiga tipica della maggior parte dei protagonisti dei film dei Coen, basti a pensare a quello sfortunato turbinio di eventi in cui si trovano lo svampito e depresso Osbourne Cox di Burn After Reading e il Larry Gropnik di A Serious Man – con tutte le implicazioni religiose e nichiliste del film. L’anacoretismo barcamenante di Llewyn è tuttavia carico, rispetto ai film del passato, di una originale novità: un’empatia che ci fa sperare in una svolta, ma che, in realtà, nel film si avviluppa su se stessa conducendoci in una sorta di eterno ritorno dell’uguale dai tratti spiccatamente ulissici sia nell’incontro con i soliti eccentrici, enigmatici e geniali personaggi coeniani – John Goodman su tutti – sia nel ritorno a casa (forse anelato?) dopo l’infelice trasferta a Chicago. Non è un caso che quel (doppio) gattone rosso con cui instaura una sorta di zoospecularità prima mancata – nella rincorsa, nella fuga e nell’addio – e poi piena – nel viaggio e nel ritorno – si chiami proprio Ulisse.
«Hang me, Oh Hang me, So I’ll be dead and gone…». L’aspetto più interessante del film sembra comunque essere l’utilizzo della musica, molto simile nelle sonorità, come affermano gli stessi Coen, a quella del loro O Brother, Where Art Thou?. Essa più che contestualizzarsi nel film come colonna sonora della scena folk, sembra intessere la stessa narrazione donandole un testo sì emozionale, ma soprattutto in grado di condurre le immagini – geniale la scena della registrazione con Justin Timberlake e Adam Driver – e di coinvolgerci nel film. Grande merito di ciò va anche alla calda fotografia di Bruno Delbonnel – candidato all’Oscar. L’augurio, visto che il film ha ricevuto soltanto due nomination agli ultimi Academy Awards, è quello di vincerlo per dare al film il giusto premio anche in madrepatria.
Siamo ancora coinvolti in una lucida estetica del perdente.