INTERVISTA A ALESSANDRO BERGALLO

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Alessandro Bergallo, attore comico e autore, ha iniziato a esibirsi in teatro a quindici anni. Ma dato che l’esperienza diretta non è tutto, ha frequentato un corso di perfezionamento in arte scenica a Milano e diversi stage col clown Jango Edwards. Oggi collabora con il Teatro della Tosse di Genova, che ha partecipato allo Short Theatre 7 – WEST END con lo spettacolo Generazioni Componibili, di Emanuele Conte.

 

Cecilia Carponi: Quale credi siano le carenze più gravi del teatro italiano in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando? In un tale panorama, come si pone Generazioni Componibili?

Alessandro Bergallo: Sì, siamo in crisi, senza dubbio. Ma da quanto? Non lo ricordo più: sono così abituato alla crisi, al termine crisi, che se mai finirà ho paura di non accorgermene. In ogni caso, data per assodata l’esistenza e la persistenza della crisi, credo che da qualche parte, come storicamente e ciclicamente è sempre accaduto, stiano sviluppandosi gli anticorpi per combatterla. Così mi piace pensare a Generazioni Componibili come a uno di questi anticorpi che prova a formarsi all’interno di un corpo, come quello del teatro italiano, dove la crisi si manifesta nella rigidità, nella secchezza delle fauci come scrivono sui foglietti illustrativi dei medicinali – che non a caso si chiamano anche bugiardini – proprie anche dello stesso pubblico che da noi frequenta i teatri e i luoghi dello spettacolo. Da una parte e dall’altra – spettacoli e spettatori –, anche se si dice il contrario si fa molta fatica a uscire, come invece accade nella maggior parte dei paesi d’Europa, dal genere, ovvero dall’idea che il cabaret sia un tizio sul palco che monologa sui rapporti tra marito e moglie o che il teatro sia una poltronissima per abbonati con cartelloni vagamente familiari o comunque rassicuranti. Alcune delle forme espressive che proliferano lontane dai riflettori istituzionali del non si può perdere, sono, per loro stessa e a volte inconsapevole natura, il racconto, a tratti felicemente instabile, di un’identità liquida, che sta comunque reagendo e cercando di andare oltre la crisi con evidenti difficoltà. Io salgo su un palco: questo è il mio mestiere. E provare a farlo ogni volta che posso, continuare a farlo, cercando di moltiplicare i punti di vista, mi sembra già una piccola rivoluzione. Quindi le carenze esistono e sono certamente gravi e molteplici, ma per me la carenza più grave è quella di aspettare che qualcuno ci risolva i problemi. In questo variegato panorama di crisi, economica, culturale, ma anche volitiva dell’essere umano, Generazioni Componibili è, tra le altre cose, il ritratto di una generazione componibile e scomponibile all’interno della quale i giovani, a differenza dei loro padri, non vogliono mobili che gli sopravvivano. Una generazione dove l’uomo sembra aver perso ogni volontà di creare, costruire, plasmare, autonomamente e in modo personale, il proprio habitat, se non assemblando mattoni pre-costruiti. Siamo la civiltà del copia e incolla, del decoupage esistenziale. Ci illudiamo di essere diversi dagli altri e, per dimostrarlo, mettiamo insieme mode, gusti, religioni, forme di disperazione che alla fine, inesorabilmente si omologano in un disegno comune di cui ci sfugge perfino la funzione. Generazioni componibili parla di questo e lo fa proponendo una simultaneità di punti di osservazione differenti, non definitivi che spetta poi al pubblico, personalmente, assorbire, montare e smontare senza alcun pre-confezionamento. Per quanto mi riguarda, poi, Generazioni Componibili è anche il ritratto di una specifica generazione, la mia generazione, quella dei quarantenni, che si trova in un periodo storico dove, pur non avendo ancora avuto il proprio tempo perché la generazione precedente non molla la poltrona, allo stesso tempo si sente già addosso la spinta alla rottamazione. Nella furia del cambiamento, del ricambio, della palingenesi politica e sociale che poi riconsegna al mondo le stesse dinamiche se non pure le stesse facce o, comunque, lo stesso sangue, la generazione di mezzo si trova a essere componibile anche in questo senso: ha bisogno di comporsi prima di tutto come generazione, come spinta collettiva.

 

C.C.: Omologazione e precarietà sono due assolute protagoniste nella vita di ognuno di noi; la posizione di Generazioni componibili nei confronti di tali problematiche è di assoluta condanna? Perchè?

A.B.: Non è nostro costume condannare, né denunciare, non lo abbiamo fatto in nessuno dei nostri lavori, anche precedenti. Preferiamo mantenere aperti quanti più punti di vista possibile. Mi piace il dubbio, lo trovo un ottimo fertilizzante per il terreno delle libertà e non credo sia destabilizzante, o meglio credo sia destabilizzante per tutti coloro che vogliono imporre agli altri il proprio punto di vista. Nello specifico mi fermerei a considerare omologazione e precarietà come due assolute protagoniste nella vita di ognuno di noi: occorre prendere piena coscienza della loro contingenza e proporre la più ampia prospettiva possibile sui punti di vista perché come dico nello spettacolo «Forse la precarietà è un prodotto naturale del benessere, oppure è generata dalla sclerotica volontà di ancorarsi disperatamente al passato perdendo di vista le opportunità che ci offre il futuro. In ogni caso è reale…».

 

C.C.: A livello formale, come mai avete scelto una commistione video e performance dal vivo? In quanto attore, è stato difficile relazionarti con la presenza in scena dello schermo?

A.B.: Emanuele Conte, regista e coautore dello spettacolo, da sempre predilige per i suoi lavori – tra gli ultimi Il viaggiatore onirico, 2984, La regola del gioco che aprirà la stagione 2012-2013 – la commistione di linguaggi artistici diversi, e più che mai per Generazioni componibili… componibile appunto anche nei linguaggi. Quanto a me, pur essendo abituato all’ecletticità di Emanuele, la presenza dei video mi ha inizialmente disorientato, ho vissuto lo schermo come protagonista, quasi un mio antagonista sul palco. Poi, via via che il lavoro procedeva, ho cominciato a considerare i filmati come una protesi di me stesso, uno strumento in più per esprimermi. Comunque, direi che una delle cose più stimolanti e spiazzanti nel lavoro di costruzione di questo spettacolo è stata – e resta tuttora quando entro in scena – quella di proporre una visione d’insieme. Più o meno lo stesso disorientamento di quando ti trovi a montare un divano klippan con il sacchetto delle viti in una mano e le istruzioni nell’altra.

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Webmaster - Redattore Cinema

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