In alcuni casi le influenze culturali fanno la differenza, in altri mantenere la propria individualità, senza rinnegare il bagaglio culturale, è un mezzo per imporsi in una società che si apre alla creatività con diffidenza: Danilo Cipollini si rivela attraverso i suoi personaggi, approfondendo il suo romanzo La didattica dell’odio.
Dall’input che lo ha spinto ad iniziare ai progetti futuri, l’intervista ci accompagna nel mondo dell’autore tra interessi e passioni, idee e dubbi, in una visione in cui l’amore viene moderato in programmi televisivi e l’odio è vittima di pregiudizio.
Martina Crapanzano: Il libro “La didattica dell’odio” è nato dalla tesi di laurea: quali sono le differenze tra il lavoro nella sua genesi e il libro pienamente compiuto? Quanto ha influito la tua formazione nell’interessarti a una “Didattica dell’odio”?
Danilo Cipollini: L’idea di una didattica dell’odio nasce da molto lontano, dai primi anni di università. Nasce dalla pratica delle arti marziali. Mi affascinavano i meccanismi del cervello, la capacità che abbiamo noi esseri umani di condizionarci e spingerci in una direzione innaturale – quella, del tutto al di là dell’emotività, di esprimere violenza verso qualcuno che ci è indifferente. Condividevo questi pensieri con Giorgio, uno dei miei più cari amici, anche lui impegnato in sport simili. Poi, iniziò all’università un corso di Filosofia del Desiderio. Fu l’anello mancante, l’applicare filosofia e emozionisentimenti. Iniziai a documentarmi. C’era una quantità enorme di materiale, nascosto benissimo in altre pagine, sepolto sotto altre idee. Lorenz, Focault, Nietzsche, Moore, Rousseau, Leibniz… c’erano tracce di odio quasi ovunque. Non ho fatto altro che raccogliere a fattore, riportarle alla luce. Quando la tesi è stata respinta, tacciandola come “troppo creativa, troppo personale, complessa da gestire”, mi sono ritrovato in mano questo mucchio di pagine sparse. Ho creato un contesto che fosse adeguato, uno sguardo ironico e cinico sull’Italia orribile che ci tocca sopportare, ed ecco il mio romanzo.
M. C. : Leggendo il tuo libro e la tua biografia ho notato delle analogie tra te e Dario Sensoli. Quanto e cosa vi accomuna realmente?
D. C. : E’ un tema classico, la corrispondenza fra autore e personaggio. Credo sia normale, per chi legge, cercare di vedere oltre, di immaginare. La realtà è che c’è tanto di me ma non in Dario Sensoli. Danilo è spezzettato, ridotto a brandelli, scomposto. C’è la mia anima razionale in un personaggio, il mio lato femminile in un altro, il mio lato banalmente maschile in un altro. C’è una parte della mia storia personale, un paio di vecchie storie d’amore, qualche lavoro fatto realmente negli anni. C’è la passione per la politica, per i sigari, ci sono una marea di cose. Affidate, via via, a voci diverse.
M. C. : Molti ti hanno chiesto che cos’è per te l’odio, invece io vorrei chiederti cos’è per te l’amore e che rapporto ha con l’odio. Sono alter ego o, come direbbe Empedocle, la loro contesa è necessaria alla vita?
D. C. : Una didattica dell’amore è, nostro malgrado, quel che subiamo ogni giorno. Basti pensare che c’è un programma su Canale 5 dove uomini e donne delle età più disparate giocano a imparare l’amore in diretta tv. E’ una aberrazione, se pensiamo all’Amore con quell’idea di intimità, di individualità, che tradizionalmente abbiamo tutti in testa. Poi però ci si ferma un secondo a pensare e si scopre che l’amore è tutt’altro che individuale. L’amore è collettivo. E’ patrimonio comune. «Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?», si chiedeva Carver in un suo libro. Tutti sapremmo dare una risposta e se le confrontassimo scopriremmo tristemente che i campi semantici sono più o meno uguali per tutti. L’amore, nel 2013, è standardizzato. Non è detto che questo sia un male, bada bene: magari è il modo più efficiente per limitarne i danni – perché l’amore può fare molti più danni dell’Odio, questo dovrebbe essere chiaro a tutti. Sull’Odio questo processo non si è fatto. O almeno: non nella maniera giusta.
M. C. : Quali degli artisti del panorama contemporaneo senti più vicini e ti hanno influenzato maggiormente nel tuo lavoro? Quali sono i tuoi programmi futuri?
D.C. : Non sento vicino nessuno, ma non per presunzione, semplicemente perché noi italiani viviamo una condizione ridicola. Scriviamo spesso un genere che non esiste. Nelle librerie il meglio che si possa fare è catalogarla come “Narrativa Italiana”. Che magari al suo interno comprende una quantità spaventosa di cose, dai melensi singulti pop e di facile lettura di alcuni scrittori “giovani” tipo quel tale, quel Fabio di cui proprio ora non mi viene in mente il cognome, oppure la letteratura – che lascia senza fiato – di autori straordinari come Pino Cacucci. Nella cosiddetta “Narrativa Italiana” Benni e Moccia stanno sullo stesso scaffale. De Carlo dal suo scaffale guarda i dirimpettai Numeri Primi. In un caos così, in questo girone infernale, come lo trovi un Maestro? Chi ti metteresti “vicino”? Allora uno guarda all’estero. Sono cresciuto su Fante, Bukowski, Carver. Ho amato alla follia Houllebeq. Trovo scontata e banale la letteratura sudamericana “mainstream”, tipo Coelho, e mi sono andato a cercare i miei autori anche lì (Manuel Scorza, Skarmeta). Da bambino leggevo Rodari, lo rileggo ancora adesso e non mi stanca mai. Sto scrivendo il mio secondo romanzo, “Murocrazia”, dovrei ultimarlo a dicembre 2013. Il presente è un concorso, “Il Club dei Narrautori”, che ho organizzato insieme al mio amico cantautore e scrittore Jacopo Ratini, per dare una vetrina a altre persone che vorrebbero scrivere ma nella jungla dell’editoria si stavano perdendo. Totalmente gratuito, siamo quasi alla fine della prima edizione ed è stato un successo gigantesco, è una cosa che mi riempie di orgoglio. Mi chiedevi cos’è per me l’amore beh, questo lo è. Scrivere. Scrivere è una forma di amore.