Articolo di: Giada Boe
Davide Valenti è un artista a cui piace saltare. Salta nel sogno per riuscire a volare, e proprio come nel sogno salta nella vita, ogni volta che si appresta alla realizzazione della sua prossima opera, con lo stesso intento. Mafia, un altro mondo ne è un po’ un’esemplificazione. Seguiteci e vedremo insieme che questo salto non è un salto sprovveduto. Davide non ha nessun paracadute con sé. Anzi è più esattamente un salto risoluto il suo: sa bene da dove parte e sa ancora meglio dove vuole atterrare.
Giada Boe: Che impressione hai avuto dell’incontro W.I.P ?
Davide Valenti: Mi è piaciuto moltissimo partecipare a questo incontro in primo luogo perché a me piacciono gli incontri. Poi se mi si invita a parlare di rappresentazione è come se mi si offrisse un barattolo gigante di nutella. Mi è piaciuto molto l’ambiente fatto di giovani interessati ad imparare. Per me è un grande piacere poter mostrare come la pratica artistica, in senso lato, sia un grande strumento di conoscenza. Trovo essenziale percepire un desiderio da parte del pubblico, solo in questo modo posso ricevere piacere dal dare. Fare tutto ciò insieme a Gianni Farina doveva creare necessariamente un’alchimia che trascendesse l’arte. Per non parlare della sapiente accoglienza di Roberta Nicolai e dell’importante contributo teorico del Prof. Ciancarelli.
G.B.: Hai detto di essere stato un pubblicitario in carriera e poi: Vroom. Com’è avvenuta questa inversione di rotta?
D.V.: È un argomento molto complesso perché quando ho lasciato la pubblicità avevo una miriade di sensazioni e motivazioni che sarebbe impossibile elencare per intero: «Se impiegassi tutta l’energia creativa che do a questa agenzia per i miei lavori guadagnerei almeno tanto quanto guadagno qui, perché non darei il novanta per cento a loro e farei solo quello che mi va», oppure «Andrei piuttosto a fare il barista o qualsiasi altro lavoro per avere il tempo di occuparmi della mia vita e non di quella dell’agenzia», oppure «I miei obiettivi non coincidono con quelli di questa agenzia, io non sono l’agenzia». Nella vita credo che nessuno si accontenti mai di quello che ha raggiunto, ma ci sono persone che si accontentano meno. Una volta soddisfatto un desiderio si passa a un desiderio più grande, e così all’infinito. Fare il pubblicitario non mi soddisfaceva più, volevo esprimere dei contenuti che fossero davvero miei. Volevo cercare me stesso e mi accorgevo che facendo il pubblicitario non mi era possibile. Un artista, alla fine, fa una ricerca su se stesso, cioè una ricerca su come vede il mondo, e poi la offre agli altri. La pubblicità mi ha offerto l’abilità di poter esprimere nella maniera più efficace qualsiasi contenuto con qualsiasi medium, e questo lo considero essenziale per un artista. Ma mancavo io. Anche se, buttandomi poi nell’arte e andando anche oltre, ho scoperto che io, in realtà, non esisto, perché sono solo una goffa rappresentazione.
G.B: Fare l’artista è “un salto nel vuoto, è preferire l’inconcepibile al concepibile”. Come s’impara ad uscire da sè? E’ stato difficile “saltare” o è stata una conseguenza naturale?
D.V.: Fare l’artista è un salto nel vuoto solo se vuoi farlo come professione. C’è una diatriba su questo punto, perché molti non lo considerano un “lavoro” e anch’io non sono certo che lo sia. È un salto nel vuoto a livello di certezze, a livello economico. Ma spesso non ne puoi fare a meno perché ti accorgi che non c’è niente che ti possa più portare piacere, né i soldi, né l’onore, né la conoscenza. È una questione di disperazione. Credo che devi essere disperato, non avere più nessuna speranza di poter essere felice soddisfacendo un desiderio egoistico. Per questo chi vuole uscire dall’egoismo è il più egoista di tutti, perché vuole l’impossibile. E a questo punto proverà ogni possibile via per uscire da sé. Anche qui è una questione di desiderio, l’unico desiderio che ti è rimasto è quello di farla finita con questa pagliacciata del te stesso. Ma questo forse è un passo successivo alla scelta di fare l’artista, è più simile al passo religioso di Kierkegaard. In questa nostra discussione però forse tutto ciò è ancora all’interno dell’arte contemporanea perché l’arte contemporanea, dopo Duchamp, non è più l’arte nel senso in cui la intendeva ancora Kierkegaard, ancora egoistica, ma è sempre anche qualcos’altro.
G.B.: Nell’incontro hai parlato di Tuttunizzazione come “essere tutt’uno con l’universo” e di come questa sia molto vicina all’arte. Puoi spiegarmi meglio in che senso questo è possibile?
D.V.: La Tuttunizzazione è un termine coniato da un mio amico mentre bevevamo una birra, e sarebbe bellissimo se entrasse nel vocabolario comune. Si tratta di uno stato in cui senti di essere collegato con tutto e, contemporaneamente, di essere tutto. È uno stato mistico. Ma non posso spiegarti davvero di cosa si tratta, dovresti provarlo. Impara a disegnare o a scrivere o ad esprimerti nel modo che ti è più congeniale. Impara a creare un universo verosimile, come diceva Aristotele, segui magari anche i suoi consigli sulla scrittura della tragedia, e molto probabilmente sperimenterai quello stato. C’è una teoria estetica per cui gli artisti continuano a produrre arte perché vogliono ripetere questo stato sperimentato durante le loro prime esperienze di creazione. A me è successo. Ma la questione si complica perché questa esperienza è come la droga, perché tutto è come la droga: soddisfatto un desiderio ne cercherai un altro più grande, quindi, dopo un po’, l’arte che facevi prima non ti darà nessun piacere, la rappresentazione non ti darà più piacere. Devi andare oltre.
G.B: Durante la conferenza hai introdotto l’interessantissimo concetto di “Sogno Lucido”. Non tutti sapevano di cosa stessi parlando, tu come ne sei venuto a conoscenza? Quanto è stata rilevante la conoscenza di questa “altra realtà” per la tua concezione artistica?
D.V.: Sì, è interessantissimo, e non è mio, come non è nostro nulla che di ciò che facciamo o diciamo. Adesso che mi ci fai pensare, io ne sono venuto a conoscenza per la prima volta leggendo Jodorowsky, dieci anni fa, ma la svolta importante è stata l’essere riuscito a farlo, a praticarlo grazie ad una scuola esoterica che ho frequentato fino a pochi mesi fa. Acquisire coscienza in maniera costante in un sogno ti conferisce la consapevolezza che anche quella che chiamiamo “realtà” è un sogno. Tutto quello che si vive in un sogno è tanto reale quanto lo è l’essere svegli, e lo stato di veglia non è altro che uno stato di sogno rispetto ad un altro stato di veglia, e spero che questo discorso non vada avanti all’infinito. Anzi credo di sapere che non sia così perché è proprio la Tuttunizzazione lo stato in cui sei totalmente sveglio, proprio perché sai che tu non esisti in quanto tu, non esiste il tempo e lo spazio, l’essere e il non essere coincidono. Naturalmente tutto questo influisce sul mio lavoro. E il mio lavoro va verso la demolizione della rappresentazione, della distinzione tra sogno e realtà.
G.B.: Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Qualche anticipazione?
D.V.: Ho due progetti pronti che aspetto di poter esporre in un luogo a loro congeniale. Uno è la “seconda pubblicità del male”, che segue la prima, risalente a quasi due anni fa, Mafia, un altro mondo. Si tratta della seconda parte di una trilogia che vuole trovare il bene in tutto ciò che c’è di più orribile nel mondo, basandosi sull’”ama il tuo nemico”. Il secondo progetto distrugge, finalmente, la rappresentazione e trasforma l’arte in vita.
G.B.: Argomento freestyle: per concludere, c’è qualcosa di cui ti piacerebbe parlare ai lettori di Pensieri di Cartapesta?
D.V.: Sì, all’incontro W.I.P. mi sarebbe piaciuto consigliare dei libri, non saggi ma fiction perché parlano direttamente al cuore (so che la parola cuore è un po’ troppo tamarra ormai, ma ho buoni motivi per usarla), sul metalinguaggio e sulla Tuttunizzazione. Eccoli: La vita è sogno di Calderon de la Barca; La storia infinita di Michael Ende; La trilogia degli illuminati di Robert Anton Wilson, il massimo della controcultura americana. Se vi sbrigate potete trovare il primo volume intitolato L’occhio nella piramide edito da Shake. (Per gli altri due potete implorare sempre la Shake perché cerchi nel suo magazzino delle meraviglie); The invisibles, leggendario fumetto del leggendario Grant Morrison e Promethea, il fumetto più esoterico del maestro Alan Moore. Poi, andate a vedere tutti gli spettacoli di Menoventi, ma state attenti: non si torna più indietro.
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