Intervista a Federico Bomba

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Articolo di: Michela Iaquinto

Foto di: Sara Caroselli

All’interno del progetto W.I.P. abbiamo avuto il piacere di incontrare Federico Bomba, fondatore della compagnia Sineglossa di Ancona, un gruppo eterogeneo di artisti che lavora sul rapporto luce-corpo. L’incontro Sconfinamenti e Confini, ci ha permesso di entrare nella sua idea di teatro; idea anticonvenzionale che ha come elemento portante qualcosa di comune a tutte le rappresentazioni: il pubblico.

Michela Iaquinto: durante l’incontro Roberta Nicolai, direttore artistico di Teatri di Vetro, ha affermato la frase: «il nostro lavoro o ha una valenza politica molto forte o è  totalmente inutile». Sei d’accordo con questa affermazione? Se  così fosse, quanto e come la tua essenza politica influenza il tuo lavoro?

Federico Bomba: Certo che sono d’accordo. Anzi, mi sembra che la valenza politica sia l’elemento che fa da spartiacque tra i creativi e gli artisti. Entrambi, per essere a buon diritto riconosciuti in queste categorie, sono professionisti brillanti che lavorano per produrre idee e realizzare progetti con un linguaggio personale ed efficace. La differenza sta nel fatto che a livello professionale, se i primi hanno come principale obiettivo quello di andare a riempire un vuoto che esiste nel mercato e quindi vendere un servizio o un prodotto, i secondi si pongono la questione della vendita solo in un secondo momento (parlo a livello logico, non cronologico). L’assillo (l’hantise come la chiamerebbe Derrida) che spinge un artista a creare parte da una visione del mondo e dall’urgenza di condividere questa visione, indipendentemente dal risvolto immediatamente economico del suo lavoro. Questa divisione tra creativo e artista è alla prova dei fatti solo immaginaria, perché esistono delle persone che sanno organicamente conciliare entrambe le anime, e forse in questo momento di identità fluide e precarie anche più di queste. Ma credo sia comunque utile per inserire una qualsiasi opera, come fruitore, all’interno della giusta cornice interpretativa. Credo anche che non si possa scindere il lavoro di nessun essere umano dal suo vissuto; l’esperienza quotidiana di vita determina, in modo certamente insondabile e ingiudicabile, le scelte formali e contenutistiche delle opere; esse mi appaiono, anzi, come un’ esternazione contingente di tutte quelle esperienze che ogni artista (e creativo) fa nella vita. E questo ovviamente vale anche per me.

 M.I.: sei stato definito un montatore folle che ha l’esigenza di far capire al pubblico che si trova a teatro. Da cosa deriva questa forte esigenza?

 F.B.: È una mia attitudine verso il mondo, ristrutturarlo continuamente affinchè abbia un senso e sia intelligibile. Da sempre sono prevenuto nei confronti delle opere dada che accostano elementi secondo la logica del nonsense (ed ecco un paradosso). Ho presuntuosamente la sensazione che chi opera in questo modo si renda il compito più facile, perché è più semplice non dire che dire, non prendere una posizione chiara che farlo. Anche in questo caso si tratta di una scelta politica. Nel momento in cui ho del materiale grezzo sento il bisogno di raffinarlo prima consegnarlo a uno spettatore, facendo una scelta tra tutto quello che è emerso in sala e costruendo un’impalcatura solida. Ne va dell’onestà con cui mi approccio a lui/lei e della fiducia che mi devo guadagnare per poter essere ascoltato e, forse, accolto. Quando lavoro con i codici del teatro vorrei che gli spettatori si accorgessero che c’è una drammaturgia e una regia, anche se non sono andati a vedere Shakespeare, altrimenti si rompe quel vincolo che rende possibile la relazione tra il pubblico e l’artista. Quando, invece, lavoro sugli sconfinamenti verso le altre discipline, cerco di mettere in discussione i codici, ma in questo caso la sfida  diversa.

 M.I.: il nome che è stato dato all’incontro è sconfinamenti e confini; quando hai recepito questo “bisogno” di sconfinare i confini del teatro e perché?

 F.B.: Sineglossa sconfina dalla sua nascita, perché al suo interno ha professionalità molto diverse: filosofi, musicisti elettronici, pittori e performer. Immagino non sia stato un caso formare un gruppo così eterogeneo, era probabilmente una sensazione imprecisa che avevo sin dall’inizio della mia ricerca. Col tempo questa esigenza si è esplicitata ed ha trovato anche una ‘formalizzazione poetica’. Non possiamo negare che le persone a teatro non vanno più, che la digitalizzazione ha trasformato i desideri e le aspettative del pubblico ed essere un artista senza pubblico è un’esperienza incredibilmente frustrante, perché si perde quel presupposto che è la condivisione. Per questa ragione Eresia [bianca]si presenta nelle vetrine dei negozi ai passanti ed Eresia [nera]si apre, rivoluzionando la sua drammaturgia, ai lavori di sei artisti cagliaritani che entrano con interventi istallatvi, fotografici e performativi. Sono stati chiamati a spostare il punto di vista del drammaturgo, che, anche contro la sua volontà, rischia di trattenere a sé il potere di una prospettiva unica, mettendo il pubblico a sedere a teatro e direzionando frontalmente il loro sguardo.

 M.I.: personalmente, ho trovato una frase da te detta, molto esplicativa rispetto alla tua idea di teatro: «I corpi che si mescolano, ad ogni performance si mescolano un po’ diversamente, quindi il pubblico assiste ad un evento unico, così com’è il teatro». Pensi che questa unicità del teatro, sia riscontrabile, per te, anche in un teatro di narrazione più tradizionale?

 F.B.: Penso che ogni opera live sia unica e irripetibile, vivendo dei contingenti stati fisici ed emotivi dei performer e del pubblico, che dovrebbero entrambi essere consapevoli di giocare un ruolo fondamentale. Spesso c’è l’idea che uno va a teatro, sia di prosa o di immagine, si siede guarda giudica esce. E non si è ancora fatto abbastanza per veicolare l’idea che, invece, lo spettatore partecipa attivamente a quello che sta accadendo, sia con la sua energia ma anche con la sua riflessione, accettando e godendo del fatto che non è davanti a un prodotto da consumare, ma a un processo che sta accadendo davanti ai suoi occhi. Questa è la differenza principale con qualsiasi videoproiezione, la condivisione in presenza. Remember me spinge al limite questo carattere, attraverso i riflessi, facendo in modo non solo che ogni performance sia unica, ma che ogni spettatore all’interno della stessa performance abbia un punto di vista diverso rispetto a quello della persona che gli siede a fianco.

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Redazione

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