La curiosità che si ha quando si legge un bel libro è quella di voler scoprire se tutte quelle parole impresse su carta siano figlie di eventi realmente accaduti o meno. La fortuna che si ha quando si fa parte di una redazione come quella di Pensieri di cartapesta, oltre a recensire libri del livello di Però un paese ci vuole, è quella di poter intervistare l’autrice, in questo caso, Giovanna Grignaffini e togliersi ogni dubbio.
Andrea Palazzi: Vorrei partire dalla citazione di Cesare Pavese che tanto ha a che fare con il suo libro: «Non c’è dubbio, un paese ci vuole sempre, «non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Pensando alla storia che lei racconta non crede che le città, viste come non luoghi, dove ci si sposta per avere maggiori possibilità per il raggiungimento dei propri obiettivi, generino “non persone”? Ossia tolgano umanamente piuttosto che dare?
Giovanna Grignaffini: Visto il tema dominante del mio libro, penso che il riferimento a Pavese fosse più che naturale: direi “ obbligato ”, in qualche modo. Ma l’ho scelto anche per un dettaglio vero : il fatto cioè che in quegli anni si discuteva tantissimo intorno ai libri di Pavese e alle loro domande sulle radici come fondamento di identità. Letture “rubate”, quelle di Pavese, da contrapporre a quelle scolastiche : Leopardi e il suo “natìo borgo selvaggio” visto come costrizione della libertà individuale ; Ulisse e il mito del viaggio inteso come allargamento di confini e espressione di un’umanissima “sete di conoscenza”. Domande ancora attuali, credo, anche se il borgo selvaggio con le nuove tecnologie si è fatto globale. E i conglomerati urbani nelle loro infinitudini si offrono sempre più a chi li abita come isole, come frammenti di paesi che vivono dentro città-metropoli. Verissimo allora che il problema principale oggi riguarda sempre più gli innumerevoli non-luoghi dentro cui dissipiamo il nostro tempo, le nostre energie e la nostra umanità. Ma la domanda resta: che cosa può trasformare un non-luogo in un luogo abitabile per un soggetto? Carlo ci prova a dare una risposta, quando dice, proprio lui che non si è mai allontanato da Fontanellato : “ Bisogna andarsene, però un paese ci vuole”.
A.P.: Una cosa molto bella è la colonna sonora del suo libro. Ho trovato estremamente affascinante questo suo percorso musicale. È stato soltanto un accorgimento per creare curiosità e attenzione nel lettore, alla Calvino se vogliamo, oppure la sua è una vera e propria passione per le note e quindi anche un suo modo di raccontarsi personalmente?
G.G.: Io credo che chiunque di noi abbia una personale lista di canzoni che hanno accompagnato la sua vita. Anche chi non segue direttamente o non ha forte passione per le cose musicali. Io questa passione ce l’ho. Ma negli anni Sessanta la passione per la musica –meglio, per le canzonette- è stata qualcosa di diverso da una semplice scelta individuale. E’ diventata fattore di identità generazionale, ha portato i giovani per la prima volta al centro della scena e del discorso, ha modellato comportamenti e stili di vita. Ma soprattutto si è trasformata nel racconto, in diretta, della vita dei giovani. Un racconto che spaziava dai grandi temi come la pace, la morte, l’ingiustizia, la solitudine, ai piccoli fatti della vita quotidiana. Anzi, direi che è stato proprio questo il ruolo preminente delle canzonette negli anni Sessanta : avere tracciato i contorni di una gigantesca epica del quotidiano dentro cui i giovani erano protagonisti assoluti, con la loro vita materiale e i loro sogni, coi loro piccoli turbamenti amorosi e i loro grandi ideali. In questo senso in quegli anni c’era una cultura musicale condivisa. Nonostante le mille contrapposizioni tra sostenitori dei Beatles o dei Rolling Stones, della Pavone o della Caselli. Le canzonette erano di tutti, perché tutte erano lo strumento attraverso cui i giovani prendevano coscienza delle loro differenze e del loro essere un soggetto.
A.P.: Quanto c’è di Giovanna Grignaffini in Però un paese ci vuole? Non le sto chiedendo la veridicità di personaggi e vicende, ma quanta voglia c’è in lei di tornare a Fontanellato…
G.G.: Mi viene da rispondere con una battuta. Sottolineando che il desiderio di tornare mi ha condotto a scrivere un libro su Fontanellato, ma non a tornare a viverci. E questo ci riporta non solo al carattere “impuro”, ambiguo e conflittuale di molti nostri desideri, ma anche al fatto che Però un paese ci vuole è nello stesso tempo un gesto di restituzione e di presa di distanza, un atto d’amore e un congedo. Certo, come tutti i congedi, anche questo implica la certezza che ciò da cui ci si separa diventa definitivamente nostro. Diventa un’attitudine, una dimensione interiore, un abito mentale e affettivo.
A.P.: Forse azzardo, ma dal suo libro traspare il fatto che la filosofia è il suo primo amore. Non per altro ci si è laureata. Quanto l’ha aiutata nel corso della vita, anche alla luce delle esperienze di insegnante all’Università di Bologna e di parlamentare?
G.G.: Certo, il libro è fradicio di riferimenti alla filosofia, anche nelle sue forme più ingenue e scolastiche. E in particolare ne è permeato il personaggio di Carlo: le sue argomentazioni e il suo pensiero obliquo, il suo costante elogio della “nobile arte della conversazione”. E questo mi sembra del tutto naturale, visto che si finisce sempre per parlare delle cose che più si amano e si conoscono. Ma la filosofia non compare nel libro come organizzazione specifica del sapere, né tanto meno come disciplina. Resta piuttosto sullo sfondo come stato d’animo, come esigenza continua di porsi delle domande, di mettere sempre in discussione l’evidenza e la fretta, l’apparente naturalità di ogni rapporto del soggetto con il mondo. Non stancarsi mai di chiedere. Chiedere a sé, prima di tutto. In questo mi sembrava di poter esplicitare un tratto che, credo, sia stato comune, o almeno condiviso, da molta parte della nostra generazione. Un tratto che per quanto mi riguarda è stato molto utile negli anni di insegnamento, visto che proprio su di esso si fonda larga parte della relazione pedagogica. Un tratto che, invece, ha fatto un po’ da ostacolo negli anni della politica. Visto che, in politica, dopo tanto argomentare e interrogare, una decisione va comunque presa. E, qualche volta, anche in fretta.