Giulio Stasi è laureato in economia; dopo aver lavorato per anni nella City di Londra, decide di mollare tutto e seguire il suo grande amore: il teatro. Inizia così a frequentare diversi corsi e laboratori: si forma alla scuola triennale di recitazione di Beatrice Bracco e approfondisce gli studi con grandi insegnanti italiani e di fama internazionale. Oggi lavora come attore e regista, ed è fondatore e direttore artistico di RosabellaTEATRO – ex Associazione Culturale Teatrale Rosebud – con la quale porta in scena diversi spettacoli, tra cui Crollo! di Jean Tay, di cui cura anche l’adattamento e la traduzione. Ha partecipato alla rassegna Short Theatre 7 – WEST END con l performance Glory Holes.
Cecilia Carponi: Nella performance da te ideata e diretta Glory Holes, sei riuscito a ottenere un incontro diretto e intimo tra due sconosciuti: attrice e spettatore/trice. Da cosa nasce questa esigenza?
Giulio Stasi: Preferirei parlare di scelta, di volontà, di idea, piuttosto che di esigenza, vocabolo un po’ abusato – insieme ad urgenza – da tanta parte del teatro italiano. Io mi sono innamorato di uno script breve che parlava di un incontro intimo e diretto fra due sconosciuti. Ho trascorso un lungo periodo in cui cercavo di trovare una chiave che potesse dare dignità autonoma all’adattamento teatrale di un’opera cinematografica. Finche più o meno consciamente ho traslato questa idea nella regia, e ho creato un rapporto intimo, diretto ed esclusivo fra due sconosciuti, che non si vedono, ma si possono sentire; fortissimamente. Uno dei due sconosciuti era l’attore, che nei credits è rimasto appunto anonimo, ma di cui ora svelo volentieri il nome: a rotazione nei tre Glory Holes si facevano piccolissime ed entravano sei grandissime attrici: Tiziana Avarista, Elena Cucci, Cristina Golotta, Jun Ichikawa, Lucilla Miarelli, Sofia Vigliar. L’altro sconosciuto doveva a questo punto essere il pubblico. Un solo spettatore ed un solo attore per volta. Da questa idea ho poi lottato come un pazzo per realizzarla concretamente, per trovare uno spazio, e ringrazio Short Theatre – e tantissime altre persone – di avermi dato questa possibilità.
C.C.: All’interno della scena italiana, Glory Holes si presenta indubbiamente come teatro di ricerca sperimentale. Qual è la tua opinione rispetto ai metodi tradizionali di fare teatro? E rispetto ai gruppi più innovativi?
G.S.: Ho personalmente dubitato sull’originalità del progetto Glory Holes; rimane pur sempre un attore che interpreta un monologo. E dubito sulla mia capacità di poter dare una risposta articolata ed esaustiva alla tua domanda. Toccherò alcuni punti. Con indubbio disordine.
Vedo molto teatro e prediligo quel teatro che ha un forte legame con il presente, che è espressione culturale dell’oggi, un teatro che è cultura viva. E cerco di fare un teatro vivo in questo senso. E contemporaneamente anche agli attori chiedo, quasi sempre, una vita in scena, non necessariamente in una cornice naturalistica. E su quest’ultimo punto mi sento forse lontano da tanto teatro di ricerca di oggi; teatro che però vedo, apprezzo, e di cui mi nutro. Non sono autore – almeno per ora – e questo fa sì che i miei spettacoli non abbiano una riconoscibilità, un imprinting comune, come quello di altri gruppi. Ogni volta cerco di agire con la massima apertura, sensibilità, fantasia al servizio di un testo. Ho però due punti sui quali cerco di mantenere una linea e un rigore, e spero che questo sia chiaro anche dall’esterno: il primo è la ricerca di professionalità e qualità totale in ogni aspetto della messa in scena; il secondo è pagare tutte le persone coinvolte, attori, tecnici, assistenti. Perché non c’è spazio, soldi e tempo oggi per il teatro amatoriale e perché non si può pretendere che la propria urgenza trovi sollievo sullo sfruttamento degli altri. Se mi chiedi di spendere qualche parola per il teatro tradizionale italiano inteso come quello dei teatri stabili non saprei dire molto; direi che spendono soldi pubblici per comprarsi spettacoli fra di loro, che compongono cartelloni dove il nome dell’attore – televisivo o cinematografico o comunque noto – viene prima dell’autore – che poi sarà o Pirandello o Goldoni o Shakespeare – che a sua volta viene prima del regista – che poi avrà più di ottanta anni – e per ultima rimane l’opera. Che dovrebbe essere lei la star. La creazione artistica. Che ha un nome, cioè il titolo. Che ha una sua vita, indipendente. Che è. E poi, per fortuna non sempre, le rappresentazioni degli stabili sono spesso delle messe in scena naturalistiche vociate. E allora la battaglia col cinema è persa in partenza. Lo diceva già Orson Welles negli anni ’50 che il teatro era morto e non aveva nessuna speranza di competere con il cinema. Sia per forza artistica, che per problemi di costi ed efficienza. Ecco perché è importante recuperare quella consapevolezza dell’hic et nunc del teatro se si sceglie di farlo. E farla arrivare allo spettatore. Su questo Glory Holes, allora sì, credo prenda le distanze dal teatro tradizionale.
C.C.: Come credi di articolare il progetto a cui appartiene Glory Holes?
G.S.: Glory Holes è solo un capitolo di un progetto più grande sul tema della Morte e Resurrezione. Una riflessione di ampio respiro e sotto vari punti di vista di come un evento importante e accidentale della propria vita, piacevole o spiacevole, possa essere il punto di partenza per una rinascita. Per fare qualche esempio: in uno dei capitoli il testo è l’ultima lettera di Scott, sconfitto da Amudsen nella gara per la conquista del Polo Sud, scritta sulla via del ritorno, poco prima di morire congelato. Una lettera bellissima alla moglie piena d’amore e di vita. Un altro capitolo, narra della passione di un fotografo per immortalare incidenti stradali, sculture realizzate in pochi secondi, arte istantanea ai suoi occhi. Per questo episodio ad esempio ho già delle chiare idee registiche, posso solo svelare che non ci sarebbe testo e il coinvolgimento del pubblico sarebbe molto diretto e intenso. In un altro capitolo il protagonista si risveglia da un trapianto di cuore con nuove e strane doti artistiche … Ora parlerò con Mauro Andrizzi e Marcus Lindeen – gli autori – che sono stati entusiasti del progetto Glory Holes. E poi cercherò di creare o di collaborare con una struttura organizzativa che mi possa supportare. Nella sfida impossibile di fare teatro cercherò di coinvolgere privati e istituzioni che si appassionino e prendano a cuore questo folle atto creativo. Tecnicamente vorrei trovare uno spazio polifunzionale, con interni ed esterni, in cui lo spettatore entra per alcune ore, un pomeriggio, un giorno intero, una notte. E partecipa a tutti i capitoli che vuole. In ordine vario e con ritmo lento. Per lasciare spazio alla riflessione, al nutrirsi, al dialogo con gli altri, fra un capitolo e l’altro. Anche i festival estivi credo possano essere un luogo ideale per alcuni capitoli, anche separati. Credo che il teatro migliore si trovi soprattutto in questi festival e lo dico un po’ a malincuore perché purtroppo durano pochi giorni e sono prevalentemente visti dagli addetti ai lavori. Questa estate ho visto Santarcangelo e Drodesera. Fantastici. Perché gli stabili non replicano in cartellone la loro programmazione? Faccio fatica a credere che anche il pubblico più conservatore avendo la possibilità di vederli entrambi possa preferire gli stantii cartelloni tradizionali. Ma forse è proprio così, siamo nei teatri del West End…
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