INTERVISTA A MARCELLO ZANATTA – prima parte

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La prima parte dell’intervista a Marcello Zanatta, professore ordinario di storia della filosofia antica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria. Oltre alla curatela di quasi tutte le opere di Aristotele, ricordiamo fra i suoi scritti: Introduzione alla filosofia di Aristotele (Milano 2010); Sapienza e filosofia prima in Aristotele (Milano 2010); Profilo storico della filosofia antica (Catanzaro 1997); La ragione verisimile. Saggio sulla «Poetica» di Aristotele (Cosenza 2001); 

1) Negli ultimi decenni, il panorama filosofico italiano ha visto coesistere da una parte posizioni prospettivistico-relativistiche come la filosofia potmodernista del pensiero debole, e dall’altra pensieri invece estremamente “forti”, radicalmente epistemici, come quello che è stato definito recentemente “il neoparmenidismo italiano”. Come valuta questa situazione? E, tenendo conto che più volte è stato appellato il nostro tempo con l’aggettivo di “post-metafisico”, ritiene, specialmente in qualità di insigne studioso del pensiero aristotelico, che, nonostante ciò, rimanga ancora qualcosa della metafisica classica greca che sia realmente imprescindibile per la cultura occidentale?

M.Z.: La ringrazio per la qualifica di “insigne studioso del pensiero aristotelico”, che certamente non mi si addice, ma certamente coglie nel segno nell’indicare quale è stato il mio impegno e, per cosi dire, il mio “amore” nell’affrontare professionalmente lo studio della filosofia: Aristotele, per l’appunto. Dirò subito che quando, nei lontani anni ’60, mi affacciai per la prima volta ai corsi di filosofia, in qualità di matricola nell’Università Cattolica di Milano,  imperava allora nell’ambito degli studi aristotelici l’interpretazione cosiddetta storico-genetica, propugnata da Werner Jaeger e portata avanti dai suoi seguaci, Joseph Zürcher innanzitutto. Al di là, probabilmente, degli intendimenti di Jaeger, che con il metodo evolutivo intendeva valorizzare la storicità e lo sviluppo del pensiero aristotelico, di contro a un ormai insopportabile presentazione di esso in chiave di organizzazione sistematica di tesi, gli “Jaegeriani” avevano finito per risolvere lo sviluppo storico in un autentico affastellamento di fasi tali che quella successiva contraddice la precedente, venendo così a minare – tanto inevitabilmente quanto erroneamente – l’unità, sia pur articolata e non già monolitica, del pensiero dello Stagirita.

Io ebbi la fortuna di incontrare e di avere come mio maestro Giovanni Reale (con lui mi sono laureato), il quale in un celebre studio, intitolato non a caso “Il concetto di filosofia prima e l’unità della metafisica aristotelica”, rivendicava l’unità speculativa dell’impianto metafisico di Aristotele, al di là della situazione “letteraria” dei trattati che compongono la “Metafisica”. Nello stesso tempo da Enrico Berti (a lui, sì, s’addice la qualifica che indegnamente lei prima ha rivolto a me di “insigne studioso del pensiero di Aristotele”) mi faceva capire, soprattutto col suo “La filosofia del primo Aristotele”, che l’approccio storico-evolutivo alla filosofia dello Stagirita (ma, in generale, di ogni pensatore) non significa affatto distruzione della sua teoresi in un affastellamento di tesi successive e soltanto successive, ma significa, semmai, distruzione dell’unità monolitica di una teoresi così concepita.Nei miei modesti lavori ho cercato di mostrare, per l’appunto, come il pensiero di Aristotele e, in particolare, la sua metafisica, lungi dall’essere un “sistema chiuso”, “monolitico”, sia invece una problematizzazione dell’esperienza alla luce delle conoscenze che man mano si accrescono, al fine di fissarne teoreticamente l’impianto ontologico. Dunque, né un semplice affastellamento di tesi successivamente acquisite, né un monolitico sistema. Questa metafisica problematica ha attraversato i secoli (sia pur intorpidita da certe sclerotizzazioni sistematicistiche: si pensi, per esempio, a Suarez) e oggigiorno più che mai vive un momento di forte interesse, come mostra il fiorire di studi aristotelici in tutti i settori: dall’etica (basti pensare, per esempio, a Jonas), alla politica (pensi, per esempio, alla Nussbaum), alla fisica (si pensi per esempio a Wieland), alla logica (qui i riferimenti sarebbero infiniti: uno per tutti: Irwin) e alla metafisica propriamente intesa (mette conto citare, tra gli altri, Amstrung, di cui non a caso sono stati recentissimamente tradotti in italiano da Annabella D’Atri gli scritti logico-filosofici in un volume di oltre 2000 pagine). Ora, il cosiddetto “pensiero debole”, nel proporre la fine dei grandi racconti e in questo credendo di celebrare la fine della metafisica, non avverte che, in realtà, rovina soltanto un “manichino” del pensiero metafisico, una sua immagine scolasticistica che non è mai corrisposta – se non nel caso di pedissequi ripetitori (ma questi non sono propriamente dei pensatori in senso stretto) – alla vera sostanza speculativa delle dottrine chiamate in causa. Gli stessi scritti di Hegel, per ampliare l’orizzonte, se meditati a fondo, rivelano di riservare molta parte alla dimensione problematica, giacché il momento sistematico è propriamente il progetto d’insieme che traspare soltanto alla fine di un percorso di riflessioni dove vive invece lo scontro di istanze contrapposte: dunque un progetto dinamico e articolato, non monolitico. La decostruzione derridiana non è – in essenza (o, almeno, così mi pare di doverla intendere) – che lo smontare un testo per sottrarlo a una precostituita unità aprioristica di senso. Il quale, affidato com’è alla scrittura, non si dà mai in una forma definitiva e compiuta (come tale il testo è un deriva), ma soltanto come labile traccia. Ecco, al fondo della nozione di traccia a me pare di poter riscontrare, in sede teoretica, l’elaborazione dottrinalmente articolata di quella che indicavo come la problematicità di un pensiero e, in sede storiografica, ancora l’eco e, per così dire, il lontano risuonare di quella dimensione che dicevo essere la storicità dell’approccio a un pensiero.

La heideggeriana “distruzione della metafisica” è in realtà il dissolvimento di un concetto di metafisica (pensata come l’oblio della differenza ontologica e come riduzione dell’essere a ente) che di fatto corrisponde al modo in cui, genialmente, Heidegger interpreta il pensiero occidentale: una interpretazione, dunque, importante e geniale, ma non già un “fatto” storicamente acclarato; un’interpretazione che in certi anni ha costituito come un cliché, una moda e che, come tutte le mode, subisce poi un declino. Di fatto, gli odierni studi su Heidegger sono soprattutto orientati a ricostruirne «storicamente» il pensiero e non già a farne il modello teorico e la base dottrinale per l’elaborazione di riflessioni filosofiche. Mi consenta in ogni caso di dire che io stesso non ho mancato di accostarmi con vivo interesse e passione al pensiero di Heidegger (cui ho dedicato una monografia e alcuni saggi) e alla sua distruzione della metafisica nella luce, per l’appunto, di un momento importante della stessa storia della metafisica, in generale, e di quella aristotelica , in specie: giacché un semplice riscontro sul catalogo degli scritti di Heidegger mostra eloquentemente che il pensatore al quale egli ha dedicato maggiore attenzione e più corsi universitari è Aristotele. Quanto infine al “neoparmenidismo”, mi onoro di essere stato allievo, nei lontani anni ‘60, all’Università Cattolica di Milano, del prof. Emanuele Severino, di essermi formato anche sui suoi testi (“La struttura originaria”, innanzitutto, e poi l’importante saggio “Ritornare a Parmenide”) e di avere assistito personalmente, in qualità di allievo di Gustavo Bontadini, alle interessanti e dotte discussioni metafisiche tra i due pensatori, e poi a quelle tra lo stesso Severino e Berti. Severino è un filosofo “inquietante”, nel senso che la sua riflessione investe i punti nodali della speculazione filosofica (e aristotelica, innanzitutto), e l’interpretazione che ne offre dà effettivamente da pensare e impegna parecchio. Non potendo in questa sede fare un resoconto completo del suo valore, mi limiterò a dire che esso, forse, pecca di un’attenzione non primaria alla storicità della filosofia e, in particolare, alla teoresi di filosofo. Forse il momento essenziale della costruzione neoparmenidea di Severino è la interpretazione del principio di non-contraddizione in termini tali da vietare il divenire come passaggio dall’essere al non-essere. Ma su questo punto Aristotele ha espresso parole a mio avviso decisive, che Severino conosce benissimo e ha criticato, ma, per l’appunto, non nella prospettiva di Aristotele (ecco il momento della storicità), bensì dal suo punto di vista, che sul punto non mi sembra così solido come lo è altrove. Nel cap. IX del De interpretazione Aristotele dà quella che a mio vedere e la formulazione più rigorosa e più propria del principio di non-contraddizione. È questa: «che ciò che è sia quando è e che ciò che non è non sia quando non è, è necessario; tuttavia non n necessario né che tutto quanto ciò che è sia, né che tutto quanto ciò che non è non sia». Il che significa: non è necessario, posto che l’essere è e il non essere non è, che tutto ciò che è permanga eternamente in quello che è, perché, se divenisse, entrerebbe nel non- essere, che invece gli è vietato. Ben al contrario, il principio di non contraddizione, se correttamente inteso, vieta di pensare e di affermare al tempo stesso l’essere e il non-essere di una cosa, nel senso che, quando essa è qualcosa, non le si può attribuire anche il non-essere quel qualcosa, e quando non è qualcosa non le si può attribuire contemporaneamente anche l’essere quel qualcosa; ma che la cosa possa essere e non essere, questo il principio in questione non lo vieta affatto. Ecco, qui sta al tempo stesso la «sconfitta» del parmenidismo e la base della metafisica problematica di cui parlavo.

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