Intervista a Marco Carcasi e Giordano Giorgi | Rumore Austero

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Articolo di: Elisabetta Viola

La settima edizione del Festival Teatri di Vetro è stata inaugurata il 21 aprile con la performance musicale Rumore Austero di Marco Carcasi, Giordano Calbucci e Alessandro Calbucci negli spazi del Forte Fanfulla.

Abbiamo proposto agli artisti questa intervista per andare più a fondo all’interno del loro lavoro.

Il 21 aprile negli spazi aperti del Circolo Arci Forte Fanfulla il trio Carcasi/Giorgi/Calbucci si è esibito in Rumore Austero, performance musicale realizzata servendosi dei più svariati strumenti, non necessariamente e “tradizionalmente” musicali. Si tratta, infatti, il più delle volte, di oggetti scelti in base alla storia che hanno alle spalle e alla loro capacità di evocarla. È un lavoro teso a non produrre tanto una melodia musicale quanto una serie di suoni che nel complesso portano lo spettatore a riflettere su quelle che sono le sue più immediate percezioni.

In Rumore Austero gli artisti si sono serviti di diversi amplificatori, di una batteria, di una chitarra acustica e di una chitarra elettrica, ma anche di pietre,nastro adesivo e topi meccanici.

 

Elisabetta Viola: Quale formazione avete alle spalle? Quando e come è nato il progetto di lavorare insieme?

Marco Carcasi: La formazione che ho alle spalle è quella della curiosità. Ho cominciato con una cassettina demo, fatta di padelle percosse, bassi che uno non sapeva che farsene, urla e orologi. Oggi ne ho 41 di anni, in mezzo ci sono state altre cose. Il progetto di lavorare insieme, nasce circa dodici/tredici anni addietro, dinanzi una fotocopiatrice, dove il Giorgi stampava astrusità con una macchina fotografica al collo e collanine varie. Si poteva fare, in una terra di mezzo, con il movimento corporeo ed i suoni che esso produce.

Giordano Giorgi: Verso i 15 anni un po’ di chitarra Jazz, dai 17 ai 20 molto Metal. Dai 18 fino ai 30 in giro per l’Italia per laboratori teatrali a cercare risposte sullo stare in scena. Marco l’ho incontrato qui a Roma in un progetto di ricerca teatrale (non so, se si può dire che sia sbocciato amore, ma rispetto tanto).

 

E. V.: In Rumore Austero la riproduzione del suono attraverso segnali elettroacustici ha un ruolo centrale così come la volontà di sorprendere di volta in volta lo spettatore. 
Qual è l’idea di musica che mettete in pratica nel vostro lavoro?

M. C.: Non interessa un approccio monodimensionale, di mio ho visto e calcato troppi palchi, e non mi son mai trovato bene. L’adorazione di qualcuno, nei confronti di uno sconosciuto – fosse anche il Jagger o Lennon –, la trovo idiota…
Mi piace l’idea, di non aver bisogno di nulla, elettricità, luci, nulla.

Si tratta di ricomporre frammenti emozionali tramite una griglia ben stabilita da anni.

Imparo, dimentico. Non mi considero un musicista.

G. G.: La mia idea di musica?… Il camminare, mettere un piede avanti l’altro, fare dei passi, crea un suono, no? Qualsiasi persona che sa camminare emette quindi suono. Poi, che cosa si può fare con quel suono è tutto dire… Io, forse, cerco me: il conoscere-riconoscere che quella costruzione sonora è uscita da me.

 

E. V.: All’interno delle vostre opere c’è l’intenzione di coinvolgere lo spettatore? Se la risposta è sì, in che modo?

M. C.: In primis, attraverso l’utilizzo di spazi esecutivi, che costringano lo spettatore a sforzarsi fisicamente per accoglier la nostra proposta.
Si tratta di far attivare orecchie, occhi, e (sogno), gusto ed olfatto.
La memoria di una pietra sfiorata da bambino, che nel mezzo dell’ascolto/visione, riaffiora.

G. G.: Questa non è musica da ascoltare, ma è musica da sentire così ha commentato una spettatrice il 21 aprile la nostra performance. Io sono d’accordo, questo tipo di lavoro non lo si può solo ascoltare. Possiamo giocare con il percepire, come sto percependo?… bisognerebbe buttare lì l’attenzione.

 

E. V.: L’improvvisazione quanto incide all’interno delle vostre opere? Vi servite mai di una composizione scritta?

M. C.: Ci atteniamo ad una griglia espositiva che da anni adottiamo.
Conosciamo i possedimenti altrui, non il loro utilizzo nell’istante.
L’incidente è il benvenuto.

G. G.: Ci si frequenta abbastanza prima delle performance, in queste occasioni si fanno fiumi di suoni insieme. Ci si conosce come si è in quel periodo e ci si abitua a dialogare con l’attenzione sintonizzata ai fiumi di sopra. Un canovaccio scritto quindi non c’è. Sincerità molta, esibizionismo poco.

 

E. V.: Qual è il criterio che usate nella scelta degli strumenti di cui vi servite all’interno delle vostre performance?

M. C.: Di peso, sostanza e risonanza. Due pietre e la voce posson anche bastare.

G. G.: Io non uso strumenti musicali. Uso reliquie musicali. Roba vecchia, qualcuno ci deve avere suonato molto e ci deve aver lasciato segni di consumo. Io cerco di entrare in quei segni e poi quello che mi succede mi porta a camminare. A me: chitarre usate, effetti usati e amplificatori usati. Cavi e jack nuovi.

 

 

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Redazione

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