Paola Quarenghi è professoressa associata in Discipline dello Spettacolo presso l’Università “La Sapienza” di Roma e si occupa da molti anni del teatro di Eduardo De Filippo di cui è stata assistente durante il suo insegnamento come professore a contratto presso l’ateneo “La Sapienza” nei primi anni ottanta. I suoi studi inoltre sono stati incentrati sul teatro di varietà, sulla drammaturgia d’attore, e sui rapporti fra cinema e teatro, con particolare riferimento agli adattamenti shakeapeariani. E’ intervenuta all’interno del terzo incontro Scrivere in scena, organizzato dal Progetto W.I.P., incentrato sul ruolo della scrittura all’interno della rappresentazione teatrale.
Elisabetta Viola: Qual è stato il suo percorso formativo e professionale? Il progetto più importante su cui ha lavorato?
Paola Quarenghi: Mi sono laureata al DAMS di Bologna nel 1976. Era il primo corso di laurea del genere in Italia, da poco creato, e il rapporto docenti-studenti era molto stretto e cordiale. Ho fatto la tesi con Giuliano Scabia, col quale ho partecipato a una importante esperienza di teatro universitario, il Gorilla Quadrumàno, un viaggio durato alcuni anni, in giro per l’Italia e anche all’estero con un gruppo di studenti, a partire da una ricerca sul “teatro di stalla”. Questa esperienza, documentata nel libro omonimo scritto collettivamente e pubblicato da Feltrinelli, è stata molto importante per me e mi ha insegnato a conoscere il teatro anche dalla prospettiva della scena e non solo da quella della sala. Altre esperienze molto significative per la mia formazione sono state l’incontro coi teatri orientali – indiano e balinese -, al seguito delle spedizioni cine-video-teatrali organizzate dal prof. Ferruccio Marotti, col quale ho collaborato dalla fine degli anni settanta, una volta trasferita a Roma, e l’incontro con Eduardo De Filippo durante gli anni del suo insegnamento alla Sapienza, all’inizio degli anni ottanta. Del suo teatro ho cominciato ad occuparmi allora e non ho ancora smesso.
E.V.: Cosa pensa del lavoro della compagnia Biancofango e del loro metodo incentrato sullo studio del corpo come primo mezzo di trasmissione di emozioni?
P.Q.: Confesso di conoscere solo in modo approssimativo il loro lavoro, ma mi sembrano artisti molto seri e persone intellettualmente oneste – le due cose non necessariamente vanno insieme. Il loro processo di creazione degli spettacoli mi pare interessante, basato sulle “azioni fisiche” accordate non con un testo, ma con un’idea drammaturgica di partenza, che solo in un secondo momento diventa anche parola. Un pregio di questo metodo è quello di evitare che l’azione sia una semplice illustrazione del testo. Si tratta di una sperimentazione non inedita, naturalmente, ma che mi pare loro portino avanti con molto rigore, cercando di evitare il rischio opposto a quello dell’”illustrazione”, cioè una frammentazione eccessiva, l’assenza di un’architettura. So che questa assenza di una struttura può essere una scelta deliberata, ma come spettatore confesso che alla lunga, se non c’è dell’altro, la poetica del frammento mi annoia.
E.V.: Volgendo lo sguardo sullo scenario contemporaneo del teatro in Italia, qual è la sua opinione? Quali compagnie ritiene meritino maggiore attenzione?
P.Q.: Una valutazione complessiva è difficile e naturalmente il teatro non può non risentire della crisi generale in cui ci dibattiamo, anche se proprio in circostanze come queste mi sembra che riveli tutte le sue potenzialità e la sua necessità. Ci sono realtà interessanti sia nel teatro di tradizione che in quello di ricerca. Uso queste categorie ben consapevole della loro inadeguatezza. Ammiro lo sforzo anacronistico di un capocomico come Luca De Filippo, che, senza lesinare sulle paghe e rischiando di tasca propria, propone al pubblico spettacoli accurati e ben allestiti, interpretati da una folta compagnia di bravi attori. Ammiro il lusso della semplicità delle regie di Toni Servillo e Valerio Binasco, il coraggio imprenditoriale di Anna Bonaiuto che si fa produttrice promuovendo il lavoro di un bravo e appartato autore regista come Gianfranco Fiore Donati. Apprezzo moltissimo gli attori che riescono a sopravvivere e a lavorare in un sistema teatrale più che disastrato, distrutto, e che magari si pagano da vivere con le fiction televisive, continuando a prediligere un teatro che non assicura quasi mai la sopravvivenza; apprezzo il lavoro pluridecennale della compagnia Arca Azzurra Teatro; l’eclettismo di Fabrizio Arcuri (Accademia degli Artefatti) e dei suoi attori; le ricerche di Roberto Latini, che sempre disattendono le aspettative e evitano un virtuosismo facile; l’occhio sulla realtà e la precisione linguistica di Daria Deflorian a Antonio Tagliarini, ma anche il candore poetico di Enzo Moscato; ammiro moltissimo, sia come persone che come artisti, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, che da venticinque anni camminano sulla lama di rasoio di una ricerca senza rete e senza regole, ma estremamente rigorosa, e smontano e rimontano il meccanismo teatrale con una sistematicità pirandelliana e con la stessa serietà dei bambini che giocano. Mi piace il teatro serio e quello comico, quello di tradizione e quello di ricerca – che cosa vorrà mai dire? -, e più di tutto quello che è, insieme, serio e comico, tradizionale e sperimentale. Non sopporto invece il teatro snob, i gruppi che si chiamano con nomi arzigogolati e tutti uguali, il birignao – sia quello vecchio che quello nuovo -, il teatro autoreferenziale, quello con le istruzioni per l’uso e quello inutile, che è parecchio.
E.V.: Considerando la peculiarità del teatro contemporaneo di uscire fuori dal proprio ambito per mescolarsi con altre forme artistiche (cinema, performance, musica, danza, pittura) secondo lei il teatro cosa perde e cosa invece mantiene all’interno di questo processo?
P.Q.: Ogni arte nuova si è sempre misurata, in un modo o nell’altro, con quelle preesistenti e ogni vecchia arte ha dovuto fare i conti, volente o nolente, col nuovo. Il problema non sono gli strumenti, le tecnologie, più o meno avanzate che si mettono in campo, ma l’uso che se ne fa e l’adeguatezza ai fini stabiliti o la capacità di certi strumenti di far nascere idee e soluzioni nuove. Il problema è sempre lo stesso: usare gli strumenti del teatro – e quindi tutto -, non perché sono di moda o per mettere in piedi un vaniloquio teatrale, ma per comunicare con gli spettatori, per rispondere a un bisogno, per giocare a quel gioco gratuito e necessario che è il teatro con piacere autentico, con onestà, con rigore.
E.V.: Come trova il sistema di formazione teatrale in Italia?
P.Q.: Non ho studiato a fondo il problema della formazione, ma, a parte alcune istituzioni importanti come la Silvio d’Amico, la Paolo Grassi, la Civica di Milano, la Scuola nazionale di cinema e alcune iniziative legate ai teatri, mi pare che la formazione sia lasciata spesso a privati non sempre qualificati per un lavoro così delicato come il “gioco” teatrale. Credo del resto che la maggior quota della preparazione di un attore, di un regista, di un autore si faccia sul campo e credo sia importante avere una compagnia stabile – nel senso di non effimera – con cui lavorare.