INTERVISTA A PIERPAOLO SEPE

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Pierpaolo Sepe inizia la sua attività di regista teatrale nel 1991, e da allora ha firmato oltre quaranta regie. Nel 1997 inizia una collaborazione artistica con il centro di produzione teatrale Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in atto ancora oggi. Nel 2005 vince il Premio Flaiano come miglior regista teatrale. Amante ed esploratore della drammaturgia contemporanea, propone un teatro con evidenti finalità politiche e sociali, alla continua ricerca di nuovi linguaggi espressivi. Convinto sostenitore della centralità dell’attore, auspica un teatro figlio di una reale collaborazione tra i ruoli.

Cecilia Carponi: Come si configura, a tuo parare, il clima culturale in cui artisti del tuo calibro, o anche meno conosciuti, si trovano a lavorare?

Pierpaolo Sepe: Siamo in un clima di controriforma, ovvero: siamo in un clima di totale assenza di interesse da parte della classe politica e delle istituzioni per il mondo della cultura e dell’arte. Quello che va sottolineato con fermezza è che siamo governati da un branco di ignoranti che non conoscono il teatro; la cultura non rappresenta per loro un interesse, una priorità, dal momento che, come disse un ministro “illuminato”, «con la cultura non si mangia». Una simile affermazione corrisponde a falsità; la posizione assunta dai politici risulta ingannevole. È infatti nella cultura che ogni comunità affonda le proprie radici, e attraverso di essa riesce a esprimersi.

C.C.: La cultura costituisce uno strumento per superare una crisi profonda come quella che stiamo vivendo; quale credi possa essere il contributo concreto da parte del teatro?

P.S.: Grazie agli artisti che sono in Italia, la qualità dell’espressione culturale di questo paese può competere a livello mondiale. Gli artisti italiani sono all’avanguardia, sono riconosciuti in tutto il mondo e sono spesso costretti a emigrare per poter vivere del loro lavoro; fortunatamente esistono alcuni centri d’eccellenza – come il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro di Roma – che resistono, nonostante i loro fondi siano depauperatiti di anno in anno. Il contributo che il teatro può dare è quello di raccontare alla gente che non è importante essere ricchi; il livello di benessere al quale aspira il cittadino medio, è un benessere fatto di yacht e festini. Ma la cultura insegna che il benessere è tutt’altra cosa. La cultura insegna che il benessere di una comunità si basa sulla giustizia, sulla fratellanza e soprattutto sulla solidarietà.

C.C.: All’interno di questo contesto, come si colloca l’iniziativa del Teatro di Roma, l’Atelier dei 200?

P.S.: Il riscontro dell’Atelier dei 200 è stato sorprendente soprattutto a livello artistico: è stato per me uno stimolo concreto. L’obiettivo era quello di avvicinare i cittadini al momento della creazione teatrale. Perché il teatro non funziona? Perché si è allontanato dai giovani; i ragazzi dovrebbero leggere Shakespeare, vederne le rappresentazioni, comprendere le diverse visioni dei registi che mettono in scena le sue opere. L’Atelier dei 200 si muove in questa direzione: cerca di creare un dispositivo di partecipazione diretta a un meccanismo che altrimenti sarebbe precluso. Non a caso, ho scelto un testo contemporaneo, volendo fare un gesto politico. Ho proposto Come certi animali di Andrej Longo, perché volevo approfondire un autore che vive il nostro tempo, che conosce la nostra quotidianità, e che possiede un valore straordinario, che purtroppo non gli è riconosciuto.

C.C.: La nostra rivista cerca di dare spazio agli artisti di altissima qualità, soprattutto se emergenti; cosa pensi di una simile scelta editoriale?

P.S.: È fondamentale che riviste come Pensieri di cartapesta diano visibilità ad artisti emergenti. Devo però riconoscere che negli altri paesi europei questa è la norma: cercare di dare spazio a chi lo merita, piuttosto che al raccomandato di turno. È necessario mettere in luce e sostenere la qualità delle opere, non la qualità della amicizie; purtroppo in Italia regna la raccomandazione, ed è sbagliato credere che il mondo dell’arte sia libero da simili dinamiche. Questa è la causa principale di un universo culturale stagnante, in cui emergono figure mediocri che arrivano a operare in teatri stabili e fondazioni. Queste figure paralizzano l’orizzonte culturale del paese, poiché incapaci di vedere e creare bellezza, e destinate a far fallire la comunità che rappresentano. Quindi ben vengono simili linee editoriali!

C.C.: Quali sono i progetti in cantiere per il futuro?

P.S.: I progetti per il futuro sono tanti – speriamo me li facciano fare! –. Per uno di questi abbiamo avuto ottimi incoraggiamenti: si tratta di un lavoro su Medea con Mariangela Melato, progetto che vedrà la luce nel 2013, e sul quale ho già iniziato a lavorare. C’è un progetto al quale tengo molto, ma che ha già visto la luce in collaborazione con il Teatro di Roma, che è Il corsaro nero, con Marco Foschi. Si tratta di uno spettacolo che ha avuto pochissime repliche, ma un successo straordinario e imprevisto: con un gruppo di sette formidabili attori, siamo riusciti a trasporre il romanzo salgariano – tutt’altro che un romanzo di sola avventura – in una messinscena di quattro ore. Perciò spero di poterlo portare di nuovo in scena al più presto.

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Webmaster - Redattore Cinema

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