Dopo aver assistito allo spettacolo-denuncia La Giustizia è un vento. Storie di morte nelle prigioni italiane, il mio interesse per la tematica affrontata si fa ancora più vivo così come la speranza che un numero sempre maggiore di individui, in quanto cittadini, possa accrescere la propria sensibilità verso il problema.
Il regista Riccardo de Torrebruna si mostra disponibile ad approfondire alcuni aspetti legati alla pièce recentemente rappresentata al Teatro Spazio Uno di Roma.
La problematica della violenza nelle carceri, di sconvolgente attualità, è stata da Lei affrontata con grande sensibilità e competenza. Cosa l’ha spinta ad avventurarsi in un argomento così ostico da portare in scena?
Mi sembrava importante, in un momento storico in cui in Italia si parla tanto di crisi economica e di “sacrifici” da accettare, proporre un tema di riflessione che riguarda il nostro sistema sociale, le sue lacune macroscopiche, la latitanza a operare concretamente sul terreno dei diritti umani. Il carcere è il “negativo” di una fotografia che va vista nella sua interezza, è lo specchio delle reali condizioni in cui viviamo e non di quelle illusorie che le televisioni asservite ci hanno propinato per anni e a cui anche la sinistra si è passivamente uniformata.
Valerio Verbano, Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi, Niki Gatti, Stefano Frapporti sono solo alcuni esempi di ingiusta giustizia. Come mai ha scelto di affrontare, invece, due casi ben precisi, come quello di Aldo Bianzino e di Diana Blefari?
Sono due casi emblematici, gli estremi di due diverse condizioni. Bianzino era un uomo tranquillo che è entrato in carcere in buona salute e dopo due giorni ne è uscito morto in circostanze misteriose. Le accuse a suo carico non erano gravi e comunque la sua storia evidenzia i vuoti di responsabilità, la negligenza e gli abusi che potrebbero abbattersi su qualsiasi cittadino che abbia la sventura di trovarsi in carcere, anche per un fermo.
Diana Blefari era condannata all’ergastolo, doveva scontare la sua pena per i gravi fatti di cui era colpevole. Ma era una persona fragile, psicologicamente distrutta, che in carcere non è stata né curata né aiutata, ma solo avviata al suicidio, come molti altri casi di cui la cronaca si libera con un trafiletto. Anche qui sono stati calpestati i diritti umani e i principi di umanità che in un paese civile non dovrebbero venire meno anche se una persona è condannata a scontare una lunga pena.
Durante il lavoro di preparazione dello spettacolo, immagino si sia avvalso della collaborazione dei parenti delle vittime e di altre associazioni. Quali sono stati i frutti di questa compartecipazione?
Nella preparazione mi sono avvalso soltanto di notizie e articoli che avevo accumulato in anni recenti, quando la mia inquietudine sui fatti legati al carcere come istituzione aveva iniziato a suggerirmi uno sguardo più attento e ravvicinato. Ma in una replica fatta a settembre dello scorso anno a Tarquinia, al Dante Opera Aperta, il padre e la sorella di Stefano Cucchi hanno presenziato allo spettacolo, portando la loro testimonianza. E’ stata la verifica più severa del lavoro svolto. E non aggiungo altro, per il rispetto che porto a quelle due persone ferite nei loro affetti più profondi.
Lo spettacolo è ispirato al libro “Impìccati” di Luca Cardinalini. Perché? Cosa cambia rispetto al testo nell’adattamento teatrale?
Il libro è scritto in maniera egregia, con dovizia di particolari e passione. Sono anch’io uno scrittore e la difficoltà maggiore è stata quella di non alterare lo stile dell’inchiesta, pur dovendone semplificare i passaggi. I referti, le sentenze, i dettagli dell’inchiesta sono stati setacciati e distillati per non trasformarsi in un peso che lo spettacolo non poteva sostenere.
La messa in scena dell’opera è ridotta all’essenziale e sembra sfuggire a una teatralizzazione esasperata. A cosa sono dovute queste precise scelte artistiche?
C’era la necessità di far emergere delle figure, dei personaggi dallo sfondo buio della galera, senza cedere alla tentazione di teatralizzare una materia che doveva restare sobria e asciutta per diventare efficace anche sul piano emotivo. Il cosiddetto teatro civile, d’altra parte, non può poggiare su una sola voce, su un solo attore che racconta, come è spesso accaduto in questi anni. E’ importante che anche le vicende con un taglio storico-documentario trovino un “linguaggio teatrale”, sia pure scarno, ma pur sempre ispirato e arricchito dall’umanità di più attori.
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