INTERVISTA A ROBERTO LATINI: il teatro non è artigianato

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Immagino il teatro come un non finito, / non finibile. / nella sua natura credo sia l’imperfezione / l’imperfezione come aspirazione / l’imperfezione esatta, netta, giusta, precisa / l’imperfezione simile al difetto / il teatro come difetto. / assolutamente imperfetto.

Da: www.fortebraccioteatro.com

Fortebraccio Teatro è una compagnia che da più di vent’anni fa dell’esperienza teatrale un appuntamento, un incontro, una ricerca, un’occasione, un atto di responsabilità. Roberto Latini, insieme a Gianluca Misiti, ne è l’anima artistica. Il teatro, per lui, è senza dubbio arte, non artigianato.

In una sua precedente intervista, Roberto Latini dice: «Mi infastidisce il vizio che alcuni hanno di definirsi artigiani, anziché artisti». Gli chiedo perché.

Roberto Latini: Voglio partire dall’artigiano. Recentemente ho letto un romanzo di Murakami. A un certo punto diceva che il bravo artigiano ha una ferita sola, che è quella che gli è stata necessaria per ricordarsi l’errore. L’artista, invece, non parte da questa sapienza, non può partire da una conoscenza, da qualcosa che abbia a che fare con una conquista, con un costruire, con un acquisire, che invece sono cose che pertengono all’artigiano, cioè che appartengono all’imparare un mestiere.

FC: Nell’arte del teatro, quindi, non esisterebbe mestiere?

RL: No, esiste, però parliamo di due cose diverse: della tecnica, che è una roba che ha a che fare con l’artigianato, con il laboratorio, con quell’imparare; però c’è una cosa che non ti può insegnare nessuno, che è la tua capacità di perdere, che è la tua possibilità di non acquisire,  cioè di non andartene con le tasche piene, di svuotare, di avere a che fare con la responsabilità della cosa che vai a portare di fronte a un pubblico. Io trovo che ci sia una falsa modestia nel dire che uno è artigiano. In realtà si sta dicendo una cosa di una presunzione secondo me fenomenale, perché dire di essere un artigiano significa ammettere di barare, cioè di sapere i trucchi. Io voglio avere invece l’incanto di non vedere i trucchi. E’ una cosa che ha a che fare col teatro, non con la messa in scena.

FC: I trucchi non si devono vedere o pensi che non ci siano, che non debbano esistere?

RL: I trucchi ci sono, però quello che determina la qualità è come vengono usati, quanti ne vengono usati e quanti, invece, ne vengono negati, durante le possibilità che ci sono nello spettacolo. Uno spettacolo, scena dopo scena, è un’occasione continua. E non si può applicare una sapienza, dentro queste occasioni, perché sennò mi trovo di fronte a una strategia. E perché tu devi essere armato della tua strategia e non permettere a me, allora, da spettatore, di essere strategicamente barricato sulla mia posizione? Non ci incontriamo, a meno che non coincidano le nostre architetture. Se tu vieni davanti a me per come sei e arrivi disarmato, che hai un sacco di difetti, che sei forse né bello né brutto, ma sei come sei, allora forse anch’io, da spettatore, posso stare come sto e non ho bisogno di sapere di teatro e possiamo parlare a un altro livello. Tanta gente viene a teatro e non è capace di essere spettatore, perché pensa che la tua sapienza dal palco debba coincidere con una sapienza di platea. Invece spesso ci sono spettatori che sono contenti di non aver dovuto fare l’esame di teatro, per stare in sala. Quello che spesso non funziona è che a questo appuntamento, ed è un appuntamento, ci si vada barando. Questa è la differenza tra l’artista e l’artigiano. L’artigiano ti presenta un prodotto. L’artista non ti può presentare un prodotto.

FC: Ma cosa può essere, allora, questo appuntamento? Se non si bara, che si fa? Si aspetta l’incontro, semplicemente?

RL: Sì. Però dipende da cosa mi stai proponendo. Per questo la responsabilità dell’artista è diversa da quella dell’artigiano. L’artista non può presentare un prodotto. Io, durante la serata, sono completamente nella trasformazione di quello che sto proponendo. La platea respira in un modo diverso ogni sera.

FC: Ma non è un’improvvisazione…

RL: No, non è un’improvvisazione, non lo è nel senso moderno del termine, o comunque nel moderno teatrale, rispetto a quanti lavorano sull’improvvisazione. Molto spesso si fanno spettacoli lavorando sull’improvvisazione ed escono sempre delle cose. Per forza escono delle cose. Ma se io, te e altri due qui dentro ci mettiamo, una mezz’ora,… Secondo me produciamo… Produciamo anche un solo minuto, ma produciamo di più. Però non è quello, che può essere. L’improvvisazione dovrebbe essere invece come nel jazz, cioè un virtuosismo, una capacità tale, per cui uno può improvvisare all’interno di un tema che conosce perfettamente, che sa suonare. Questo avviene quando la tecnica si concede la possibilità di dimenticare se stessa, di non avere a che fare con quella strategia che ti dicevo prima, con quel meccanismo di sapienza. Io spesso mi ritrovo in platea ad essere fregato e mi dispiace. Mi dispiace di essere intrattenuto a teatro, non ne ho bisogno. L’intrattenimento a teatro è una deriva di questi tempi, insopportabile. Quando io vado a vedere uno spettacolo, è perché spero: spero di non essere intrattenuto, spero di potermi portare via lo spettacolo che posso da quello che si propone sulla scena. Quello che mi piace pensare è che ogni spettatore possa andarsene con quello che vuole, con quello che può. Molti spettatori non riescono a sostenere questa cosa, hanno invece bisogno di essere inseriti dentro il ruolo di protezione che la dimensione di intrattenimento regala. Io, come spettatore, sento miei molti spettacoli che ho visto, perché mi hanno lasciato delle cose… Come dentro a un giardino. Stiamo soltanto incontrandoci, ma soltanto è una parola completamente inadatta: questa è invece la bellezza dell’occasione.

leggi anche CONVERSAZIONE CON ROBERTO LATINI – I parte

e CONVERSAZIONE CON ROBERTO LATINI – II parte

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