INTERVISTA A ROMEO BUFALO – Seconda parte

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foto Giorgio De Chirico, Mistero e malinconia di una strada, 1914

La seconda parte dell’intervista a Romeo Bufalo, professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria e autore del libro “Il mondo che appare. Storie di fenomeni”, Mimesis, 2012.  Tra i suoi scritti: La forma del sentimento(1984), John Dewey oggi (1996, insieme a M. Alcaro), Arte, Natura, Storicità (1999, insieme a P. Colonnello), Piacere e bellezza (2000), Il comico tra estetica e filosofia (2001), L’esperienza precaria. Filosofie del sensibile (2006).

5. Che rapporto c’è tra questo recupero del sensibile e la tradizione empirista?

R. BUFALO: Sicuramente c’è un rapporto simpatetico, nel senso che una teoria del sensibile e una filosofia empirista condividono la centralità del ruolo svolto, nel processo conoscitivo, dal dato, dalla realtà sensibile. I problemi (e le differenze) sorgono proprio qui, a proposito del cosiddetto ‘dato’ reale. L’empirismo classico, certo, con le dovute eccezioni, tende a considerare ciò che è dato come un ab-solutum; come qualcosa che si impone a noi e di fronte a cui stiamo in posizione di pura contemplazione. Possiamo tutt’al più rispecchiare ciò che è dato. Questa linea porta dritti verso un realismo assoluto di tipo dogmatico. Ma Il mondo che appare si sforza pure di evitare il rischio opposto: quello di un fenomenismo che dissolve la realtà nel risultato mentale del rapporto che si instaura con essa. Se, insomma, l’Essere non si dà una volta per tutte (e qui la critica svolta in ambienti analitici, per esempio da Wilfrid Sellars, nei confrontti del mito del ‘dato assoluto’ mi trova pienamente d’accordo); se esso, per dirla con Heidegger, ‘accade’ storicamente, allora la trama del mondo è fatta di una pluralità imprevedibile di eventi in cui tutti siamo coinvolti e che anche noi contribuiamo, in qualche modo, a determinare. Se si vuole, questa è una ripresa ed un aggiornamento dell’idea kantiana della conoscenza come sintesi di dato e costruito. Ecco, ciò che dell’empirismo classico non mi sento di condividere è la distinzione tra un soggetto ed un oggetto già dati. Come è stato abbondantemente mostrato (da John Dewey a Jean Piaget, allo stesso Heidegger, soprattutto lo Heidegger di L’epoca dell’immagine del mondo) soggetto ed oggetto sono dei risultati, dei punti di arrivo di un processo che affonda le sue radici in una totalità fecondamente con-fusiva da cui progressivamente emergono le due polarità del soggettivo e dell’oggettivo.

6. Questo testo – come anche altri, valga per tutti “L’esperienza precaria” – è evidentemente caratterizzato da un approccio storico. E’ una questione di habitus argomentativo o ci sono precise motivazioni teoriche dietro? E che ruolo ha giocato in questo la sua esperienza con i suoi grandi maestri Nicolao Merker e Mario Rossi?

R.B.:Le ragioni vengono da lontano: da Galvano della Volpe, il quale ha sempre messo in guardia, quando si fa storia delle idee, dal doppio pericolo di uno storicismo sterile, fine a se stesso (come incasellamento dei ‘nudi fatti’) e di un teoreticismo astratto ed altrettanto sterile. La sua idea era che piano teoretico e piano storico fossero legati da un rapporto di reciproca determinazione; e che la plausibilità di un’ipotesi teorica dovesse essere ‘sperimentalmente’ provata sulla materialità dei testi da cui la ricerca filosofica era partita (e che, reciprocamente, i testi stessi acquistassero nuova linfa teorica alla luce delle nuove ipotesi avanzate). Questo era il succo della nota teoria dellavolpiana delle ‘astrazioni determinate’ con cui egli qualificava le grandi costruzioni filosofiche. A questa metodologia della ricerca storico-filosofica si sono ispirati i suoi più noti discepoli, Mario Rossi (nella sua monumentale ricostruzione del rapporto Hegel-Marx ed in Cultura e rivoluzione, in particolare)  e Nicolao Merker (nei suoi studi fondamentali sulla logica di Hegel, sull’Illuminismo dell’età di Lessing e nei suoi lavori più recenti sul populismo e sulle ideologie coloniali). Da tutti costoro, specie da Rossi e da Merker, con i quali ho studiato, ho appreso molto ed alla loro prospettiva metodologica ho cercato di mantenermi fedele. Se ci sia riuscito o meno non spetta a me dirlo.

7. I titoli di ogni capitolo hanno, come loro prima parola, il termine “cosa”. Che ragioni ha questa scelta?

R.B.: Perché volevo richiamare, ripetendolo quasi ossessivamente all’inizio di ogni capitolo, l’attenzione del lettore sul fatto che non è vero, come recita il Vangelo di Giovanni, che in principio erat verbum, ma che in principio erat res. Che insomma, noi siamo immersi da sempre nella sfera sensibile, nell’esperienza come totalità indifferenziata che via via si differenzia. Come diceva Emilio Garroni, dobbiamo convincerci che non ci siamo noi (soggetti definiti) da una parte e l’esperienza da un’altra. Noi siamo dentro l’esperienza inestricabilmente. Quello che possiamo fare è risalire l’esperienza stessa dall’interno. E questo possiamo farlo sentendo la sensatezza o l’insensatezza di ciò che ci sta intorno. Da qui la centralità della dimensione estetica ai fini di un orientamento nel mondo.

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    dario cozza il

    Hai saputo cogliere gli aspetti essenziali del testo, riuscendo a dare intensità a un testo che, per necessità, deve essere breve. Non ci sono sovrapposizioni, banalità; come si dice, la pagina è densa. E’ una lettura impegnativa, non ci sono pause per il lettore. C’è anche un leggero appunto e questo dà un tocco in più. Ottimo lavoro. Anche l’ intervista mi è piaciuta. Le domande sono state costruite in maniera tale da consentire all’autore di parlare dei vari aspetti del testo, di presentarlo adeguatamente. Complimenti Roberto.
    prof. Dario Cozza

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