INTERVISTA A S. VELOTTI – Prima parte

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, Louise Bourgeois, Hanging Janus with Jacket, bronzo, 1968. Tate Modern Gallery, Courtesy Cheim & Read, Galerie Karsten Greve and Galerie Hauser & Wirth © Louise Bourgeois Photo: Christopher Burke.

La prima parte dell’intervista a Stefano Velotti, professore associato di Estetica presso l’università “La Sapienza” di Roma e autore del libro La filosofia e le arti, Roma-Bari 2012. Le sue ricerche si concentrano sul problema del giudizio, del gusto, del “non so che”, dell’ignoranza, dell’immaginazione e dell’arte, in riferimento ad autori sia settecenteschi che contemporanei. Tra le sue precedenti pubblicazioni: Estetica analitica. Un breviario critico, Palermo, 2008, e Storia filosofica dell’ignoranza, Roma-Bari, 2003.

1. Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro? Qual’è stata la genesi?

S. Velotti: L’esigenza da cui nasce è quella di accorciare le distanze tra la riflessione estetico-filosofica sull’esperienza, e la produzione artistica. Naturalmente non si tratta affatto di ‘dedurre’ o di far ‘derivare’ dalla riflessione filosofica delle categorie o delle norme che determinino o ‘spieghino’ la produzione o la comprensione delle opere d’arte. Si finirebbe con il delineare una ‘estetica ad hoc‘ o un’estetica normativa o ‘preventiva’ (come la chiamava il critico Leo Steinberg polemizzando con Clement Greenberg), che si trasformerebbe tutt’al più in una poetica particolare, se non in uno sterile esercizio aprioristico e accademico. Una ‘estetica ad hoc’ impedirebbe proprio quell’incontro con la contingenza dell’opera nella sua singolarità, che invece è la sfida che una riflessione filosofica deve raccogliere. Penso che una riflessione filosofica sia vocata, o provocata, a un confronto con le cosiddette opere d’arte, se è vero – come credo – che in esse accade (se e quando accade) che trovi espressione un debordare della sensibilità (la materialità a ‘grana fine’ delle opere, il lavoro dell’immaginazione, il sentimento, le emozioni, l’elaborazione del senso e del non-senso che costituisce la nostra dimensione propria di animali umani) rispetto alla capacità del pensiero di ricondurre i suoi oggetti a concetti o a significati determinati. Non mi piace l’espressione ‘filosofia dell’arte’ (che purtroppo, e non solo in ambito analitico, viene scambiata con l’estetica), perché sembra presupporre che nel mondo vi sia una classe di oggetti già costituita che consisterebbe nelle ‘opere d’arte’, mentre ovviamente non è così. Tuttavia, proprio la ‘filosofia dell’arte’ analitica ha tentato di costruire strumenti per avvicinarsi alle opere nella loro concretezza (ma quando si è avvicinata a questo obiettivo credo che sia rimasta debitrice – che ne fosse consapevole o no – di una riflessione estetica).

2. Lei, nel suo percorso formativo, è stato negli Stati Uniti come Visiting e Assistant Professor, in università quali Stanford, Yale… Com’è guardare con occhio da filosofo continentale il mondo della filosofia analitica? Il mondo accademico degli Stati Uniti è aperto alle proposte provenienti dal Vecchio Continente?

S. V.: Ho insegnato a varo titolo negli Stati Uniti tra il 1990 e il ’96, e poi ancora, saltuariamente, come Visiting Professor, negli anni successivi. Fino agli anni ’90 la cosiddetta filosofia ‘continentale’ veniva accolta, negli Stati Uniti, per lo più nei dipartimenti di letteratura comparata, ma veniva tenuta a distanza dai dipartimenti di filosofia. È vero, c’erano delle eccezioni: esistevano dipartimenti di filosofia, avevano forti interessi per alcune correnti della filosofia ‘continentale’ (la fenomenologia, il marxismo, ecc.), ma la norma era che gli autori di maggior richiamo, che andavano di moda (da Heidegger a Habermas, da Foucault a Derrida) non venivano discussi da chi aveva una formazione filosofica, ma letteraria. Immessi nei dipartimenti di letteratura o nei vari ‘studies’ di nuovo conio (cultural, visual, postcolonial, queer… studies), spesso i filosofi ‘continentali’ venivano annacquati, se non fraintesi, più citati che compresi. Oggi mi sembra che la situazione stia lentamente cambiando. Sintomatica mi sembra la Stanford Encyclopedia on line. Ai suoi inizi era un’ottima iniziativa, di qualità piuttosto alta, ma limitata agli autori e ai problemi di tradizione analitica. Oggi abbondano invece le voci dedicate anche alla filosofia continentale. In ogni modo, arrivato in America nell’89, ho scoperto una vastissima area di ricerca di grande interesse anche per l’estetica, benché all’inizio – a parte gli autori a me più noti fin dagli studi universitari, come Goodman – facessi fatica ad orientarmi in un campo abbastanza ripiegato su se stesso, sui propri problemi (che a me sembravano assurdi e incomprensibili, come per esempio l’ossessione di trovare una definizione di ‘arte’, essenzialistica o istituzionale, storica o funzionalistica che fosse). Ma mi sembrava inconcepibile che la tradizione estetica continentale e quella analitica non si confrontassero in nessun modo (salvo rarissime eccezioni) e si ignorassero a vicenda senza tentare di trovare un terreno comune, almeno su alcuni temi. Dalla fine del ’96, anno in cui sono tornato in Italia – salvo poi qualche sortita americana di pochi mesi – ho cercato di mischiare le carte, sia nei miei corsi sia con qualche pubblicazione e traduzione. Quanto all’apertura del mondo anglosassone nei confronti del ‘Vecchio Continente’ direi che si è certamente allargata, benché rimangano pregiudizi da entrambe le parti, e anche qualche differenza sostanziale (mi viene in mente, per fare un solo esempio legato all’estetica, come il maggiore libro di Arthur Danto, ‘La trasfigurazione del banale’, sia tutto incentrato sulla differenza tra opera d’arte e mera ‘cosa’, dando per scontato che una ‘cosa’ sia qualcosa di autoevidente: provi a pensare a Heidegger, per contrasto, dove la natura di una ‘cosa’ costituisce un problema e un oggetto di ricerca filosofica sempre ripreso. Ma ricordo anche, a Yale, la riunione di una commissione, di cui facevo parte, per assegnare agli studenti borse di studio per l’estero: un candidato proponeva un soggiorno in Germania per un lavoro su Heidegger. Nonostante la correttezza formale della commissione, i professori che ne facevano parte si scambiavano risolini di intesa: ‘il ragazzo’ candidato, insomma, era ai loro occhi proprio fuori strada, con quelle sue ‘fantasticherie’ heideggeriane). Poi c’è il problema della lingua. Se non si scrive in inglese, o se non si viene tradotti in inglese, si è quasi inesistenti. Non è un problema di poco conto, e non solo per questioni ‘pratiche’…

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Autore

Lorenzo Cascelli

Ho conseguito la Laurea Magistrale in Estetica nel 2012 con una tesi su "The Tree of Life" di T. Malick e "Melancholia" di L. von Trier presso il dipartimento di Filosofia dell'università "La Sapienza" di Roma. Caporedattore prima di Arte e Libri e poi di Cinema presso Pensieri di Cartapesta, da Aprile 2014 sono direttore editoriale di Nucleo Artzine.

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