Intervista ad Andrea Cosentino

0

Articolo di: Michela Iaquinto

Foto di: Sara Caroselli

Durante l’incontro del 21 Marzo, Scrivere in scena, che si è svolto durante il Progetto W.I.P. nell’accogliente libreria Assaggi, abbiamo avuto il piacere di ascoltare Andrea Cosentino, drammaturgo, attore e regista di teatro. Un teatro, il suo, che vede mischiarsi il comico e il tragico in un’altalena di emozioni che svelano le più inconfessabili e dure verità della vita umana e della società.

Michela Iaquinto: Durante l’incontro, hai parlato dell’uso delle maschere, frequentemente presenti nei tuoi spettacoli. Visto che ti sei formato con Dario Fo, e che per lui, che ha fatto uso di svariati tipi di maschera, essa non nasconde ma rivela, tu vuoi rivelarti o nasconderti?

Andrea Cosentino: Quello che mi interessa della maschera non è il suo sostituirsi al volto, ma lo spazio che separa il volto dalla maschera. È in questo spazio, così come nella distanza che separa la marionetta dal suo manovratore, che si può agire. Questo spazio apre la possibilità del gioco. Come nella meccanica, se non c’è gioco tra due pezzi, il meccanismo non può muoversi. In fondo per me non si tratta né di nascondersi né di rivelarsi, ma di giocare a nascondino, e sempre col gusto di essere tanati. La magia, la poesia, il comico, l’essenza di quel che mi interessa, può apparire nelle azioni e nei conflitti, nelle crepe dei discorsi, e certamente non si svela nella autorappresentazione. Altro discorso è quello della cosiddetta autofiction, io ad esempio nei miei spettacoli infilo spesso materiali biografici. Ma lo faccio dando per scontato, per dirla con Rimbaud, che «io è un altro». Ed è anche per questo che riesco a maneggiarli con una certa agevolezza. Ma anche confidando che quest’altro, per l’appunto e invertendo il discorso, sono io. E tu, e tutti, altrimenti non varrebbe proprio la pena parlarne.

M.I.: «Rompere le emozioni». Hai detto che questo è il tuo intento nei tuoi spettacoli. Ma per rompere le emozioni, significa che prima devi donarle al tuo pubblico. Ti preoccupa più questa prima fase del darle, o il sottrarle?

A.C.: Direi entrambe e contemporaneamente. Non si tratta tanto di rompere le emozioni, quanto forse di mostrare come si formino. La cosa che più mi piace è smontare il giocattolo senza romperlo. O se vuoi, con un’immagine che uso spesso, lanciare il sasso senza nascondere la mano. Ma per l’appunto il sasso deve essere lanciato, il giocattolo deve funzionare, l’emozione deve crearsi. Altrimenti si finisce dentro un’arte concettuale che non amo, spesso inutilmente elitaria e autoreferenziale. Si finisce, come dico scherzando, a lanciare direttamente la mano.

M.I.: Hai definito il tuo teatro d’evasione, ma hai anche aggiunto che, se questo viene guardato attentamente, si può capire in che prigione viviamo. Quale prigione tenti di raccontare? e da questa prigione vorresti uscire, o è un rifugio sicuro?

A.C.: Il fatto di definire il mio un teatro di evasione, o altre volte di intrattenimento, è un piccolo vezzo provocatorio che di tanto in tanto mi concedo. Proprio perché questi due termini nella cultura alta sono sinonimo di disvalore. Io cerco dialetticamente di rovesciare le carte. Quel che mi diverto a sostenere, per quanto riguarda il termine intrattenimento, è che la cultura popolare, quella delle classi che una volta si dicevano subalterne, che per così dire esistevano e resistevano senza il conforto di un passato né prospettive di futuro, non poteva non essere innanzitutto una cultura di intrattenimento. Che porta con sé la sapienza preziosa, non banale, e sempre più necessaria nella condizione postmoderna, del saper vivere e godersi il presente malgrado tutto. Questa dell’evasione è poco più che una battuta, un invito a considerare le cose rovesciando le prospettive. Una evasione riuscita, o almeno tentata, non può non mappare innanzitutto la prigione. Un teatro non di evasione potrei definirlo come un teatro rassegnato allo scacco. Oppure un teatro fatto dai carcerieri stessi.

M.I.: Abbiamo ascoltato Francesca Macrì e Andrea Trapani, della compagnia Biancofango, la quale filosofia, nel loro lavoro, è arrivare alla parola dall’azione del corpo. Quanto la fisicità influisce sulla tua drammaturgia e viceversa.

A.C.: Potrei dirti banalmente che i miei studi teatrali sono stati di marca lecoqiana, dunque di quel che si dice teatro gestuale, o mimo addirittura. In realtà il mio lavoro si è sempre mosso all’interno della zona interstiziale di ciò che pertiene all’attore e ciò che è dell’autore. In questa zona non c’è neanche distinzione tra gesto e testo, o tra azione e parola.

M.I.: Parliamo dello spettacolo del 25/04 Not here Not Now, nel quale fai una critica che sfocia in parodia della Abramovic: per lei il teatro è finzione e la performance è vita reale, sei d’accordo con questa idea di teatro? Dal tuo spettacolo potrei dedurre che non lo sei, ma vorrei scavare più a fondo alla questione.

A.C.: Evidentemente no. La vita reale è comunque un costrutto, l’uomo stesso è un essere linguistico e artificiale. Io credo nella verità dell’artificio. Ogni pretesa esposizione di autenticità mi pare un inganno.C’è una frase che dice spesso Marina Abramovic: «theatre is very simple, in theatre a knife is fake and blood is ketchup, in performance art a knife is a knife and blood is blood». È una frase che suona anche bene, sufficientemente evocativa. Ma come tutti gli slogan, semplicistico e che non dice nulla. Per gioco potresti provare ad invertire i termini del discorso, e vedresti che filerebbe altrettanto bene, e forse darebbe adito a ragionamenti persino più complessi.

M.I.: Il teatro tradizionale di narrazione cosa rappresenta per te?

A.C.: Ho molto rispetto per alcuni narratori, per la loro bravura e sapienza drammaturgica, e anche per il ruolo che il teatro di narrazione ha svolto nel teatro italiano. Specie ora che non sono più così “in voga” mi verrebbe più che altro da difenderli, soprattutto dai critici e dal teatro mainstream. Io ho in comune con i narratori il fatto di fare un teatro essenzialmente solista, e dunque di aver dovuto fare di necessità virtù, di aver dovuto inventare il mio teatro a partire da una povertà subita, e non cercata o sbandierata come poteva essere la povertà grotowskiana o quella del terzo teatro. Il teatro di narrazione, e quello solista più in generale, è stato il frutto di un sistema teatrale che alla mia generazione era sostanzialmente chiuso. I narratori in Italia hanno sostanzialmente supplito alla mancata crescita di una drammaturgia teatrale che il sistema del teatro pubblico non ha invogliato e saputo far crescere.

Detto ciò, e senza star troppo a sottilizzare, non amo il binomio narrazione-teatro civile. Trovo che spesso, potrei dire quasi sempre, il teatro di denuncia e controinformazione si risolva nei fatti in un rituale di identificazione di gruppo e sostanzialmente autoassolutorio. È un problema di meccanismo linguistico, prima che di contenuto: non amo il teatro dove un attore si fa rappresentante e portavoce di una istanza di gruppo. Preferisco l’inaffidabilità del clown. E la sua lontananza da ogni potere, anche quello del contropotere Per me il teatro deve essere un antirituale, o un rituale di disappartenenza.

Print Friendly, PDF & Email
condividi:
   Send article as PDF   

Autore

Redazione

Lascia un Commento

Continuando ad utilizzare il sito, l'utente accetta l'uso di cookie. Più info

Le impostazioni dei cookie su questo sito sono impostati su "consenti cookies" per offrirti la migliore esperienza possibile di navigazione. Se si continua a utilizzare questo sito web senza cambiare le impostazioni dei cookie o si fa clic su "Accetto" di seguito, allora si acconsente a questo.

Chiudi