Artista: Jack White
Album: Blunderbuss
Etichetta: Third Man Records, XL Recordings, Columbia Records
Data di pubblicazione: 23 aprile 2012
Ascolta Love Interruption
Ascolta Sixteen Saltines
Ascolta Freedom at 21
Ascolta I’m shakin’
Quando parli con un amico di musica citando Jack White, e quello stesso amico ha lo sguardo confuso di chi non conosce l’argomento, canticchiare il motivetto di Seven Nation Army potrebbe essere una soluzione che tuttavia non renderebbe giustizia alla vena creativa dell’autore in questione.
Jack White (pseudonimo di John Anthony Gillis) è un ragazzo dal colorito pallido che sembra uscito da un lungometraggio animato di Tim Burton che, invece, viene da Detroit, e porta con sé buona parte dell’esperienza musicale della sua città, dal jazz al blues, dall’R’n’B al garage rock.
Dopo aver chiuso ufficialmente l’esperienza dei White Stripes, decide che è finalmente venuto il momento di uscire con il suo primo disco da solista, Blunderbuss, che lui stesso definisce un album composto da pezzi che «non hanno nulla a che fare con niente o nessuno che non siano la mia personale espressione, i miei colori sulla mia tela».
Ascoltando questo disco sembra che Jack White abbia sfogliato l’enciclopedia universale del rock prima di entrare in studio e registrare un disco dal sapore antico e moderno allo stesso tempo. L’importanza della tradizione viene subito evidenziata dal suono del piano rhodes che apre Missing Pieces, nonché dal ritmo tipicamente black della batteria che accompagna le chitarre acustiche. Come dire: signori, il blues non è morto. E neanche i White Stripes lo sono, a giudicare dal riff potente di Sixteen Saltines che entra prepotentemente in testa.
Le sorprese sono sempre dietro l’angolo: White sembra ricordarsi che il Rap e il Blues, seppur molto distanti, condividono le stesse origini. Freedom at 21, una delle tracce più interessanti dell’album, è un ponte che collega due generi musicali le cui strade si erano separate ormai da decenni.
Love interruption, primo singolo estratto, è una ballata in cui White viene accompagnato da un clarinetto e dalla splendida voce della cantante ghanese Ruby Amanfu. Un altro netto cambio di stile si ha con Hypocritical kiss e Weep themselves to sleep, nelle quali il pianoforte domina la scena evocando i toni pungenti e malinconici del Brechtian punk cabaret, leggasi Dresden Dolls.
Risaltano particolarmente il rhythm and blues di Trash tongue talker, l’introduzione jazz di Take me with you when you go e il rock’n’roll di I’m shakin’, l’unico pezzo non originale del disco, scritto da Rudy Toombs e interpretato originariamente da Little Willie John. La presenza del contrabbasso al posto del basso elettrico è piacevole e neanche troppo sorprendente, e mostra quanto alta sia l’attenzione dell’artista verso un suono curato a livelli quasi maniacali.
Passano gli anni e la stella di Jack White continua ad emanare una luce sempre più intensa. White non è semplicemente una rockstar, è un artista con la a maiuscola. Uno che, da quando ha cominciato a vivere di musica, difficilmente ha sbagliato qualcosa.