Jason Moran – pianoforte
Dove: Auditorium Parco della Musica
Quando: 19 Marzo 2012
Info:
Jason Moran Official Site
Ascolta:
Thelonious
Planet Rock
Praticamente uno sconosciuto al grande pubblico, Jason Moran si rivela come una piacevole sorpresa, ricca di spunti e iniziative volte ad una ricerca a tutto campo sulla tecnica pianistica e compositiva moderna. Membro consigliere al Kennedy Center for the Performing Arts, nominato MacArthur Fellow per il suo contributo alla creatività e dedizione per la musica, sicuramente porta la fama di essere uno studioso diligente e quindi potenzialmente capace di offrire un grosso contributo all’evoluzione della musica contemporanea.
In Moran convivono due realtà, due pilastri su cui poggia la sua personalità artistica. Il primo è quello legato alla conoscenza profonda del moderno jazz avant-garde, quindi, seppur prettamente di stampo classico, proiettato al futuro, internazionale, vagamente free jazz. In questo ebbero un’influenza preziosa i suoi insegnanti: Jaki Byard, Muhal Richard Abrams, ed Andrew Hill, tutti accomunati dall’incommensurabile apporto alla didattica nel moderno jazz. In un certo senso, nelle intenzioni dei suoi mentori, Moran è stato più un collaboratore che un allievo.
Il secondo tratto che caratterizza la personalità di Moran riguarda il suo lato più interiore, profondamente genetico, radicato nelle sue origini afroamericane, nei suoi modelli ispiratori e nella sua famiglia che viene spesso citata durante l’esibizione. A suggellare tali radici sono le tipiche tecniche di questo artista: un tocco forte e grezzo ma al contempo vivo e sentito, l’uso dei voicings per accompagnare la melodia, la ricerca polifonica, l’alternanza di stride-piano e i rigorosi passaggi puliti e delicati. La figura più citata fra le sue ispirazioni è quella di Thelonious Monk, come si evince dalla sua ossessione per la ripetizione, per gli ostinati fraseggi lunghi e ripetitivi, intervallati da sprazzi di rag-time tradizionale.
A parte le disquisizioni biografiche e tecniche, Moran propone un modo molto originale di fare musica e del tutto personale. In questo aiuta fortemente la sua sede di lavoro, New York, e sicuramente quello che più spiazza è l’uso reiterato delle basi per suonare, tipiche dell’hip-hop americano. Neanche qui si percepisce una copiatura meccanica del genere, poiché le scelte stesse di supporto melodico riguardano suoni urbani mandati in loop, che ricordano le installazioni di arte moderna, oppure suoni della quotidianità, come lo scrivere di una matita, o ancora l’uso delle percussioni senegalesi. È una continua sorpresa che sfugge alla categorizzazione e che spiazza per il contrastro tra i suoni roboanti e la delicatezza che segue. Illuminante in tal senso è l’arrangiamento di alcuni pezzi della scena dance underground newyorkese e delle composizioni per il balletto.
La fantasia di questo pianista è florida ma sfuggente. È difficile dare un giudizio senza prima avere una visione totale della sua figura. È probabile che il suo contributo intellettuale e cervellotico, in linea con il presente ma contemporaneamente proiettato al futuro, verrà pienamente apprezzato fra molto tempo, così come prima di lui è accaduto per altri artisti che hanno cambiato profondamente, seppur silenziosamente, il modo di sentire e concepire la musica.
Se ti piace il jazz, leggi la recensione sul concerto del Brad Mehldau trio qui
Nessun commento
Pingback: IL TEMPO DI UN DIPINTO MUSICALE | Pensieri di cartapesta