Artista: Jens Lekman
Dove: Circolo degli Artisti, Roma
Quando: 5 dicembre 2012
Una serata all’insegna del pop d’autore, quella dello scorso 5 Dicembre al Circolo degli Artisti di Roma.
In apertura, l’artista americano Chris Cohen, cantante e batterista (binomio singolare!) del progetto musicale che porta il suo nome, ha intrattenuto il pubblico con una serie di brani estratti dal suo album d’esordio Overgrown Path, un disco ben riuscito in cui il giovane compositore spazia con notevole naturalezza da atmosfere “pop-folk” a suggestioni psichedeliche, attraversando i classici territori della canzone d’autore americana (di cui è un degno erede – nomen omen!) e delle malinconie pop di matrice britannica (Belle & Sebastian su tutti).
In seguito è arrivato il momento del giovane cantautore Jens Lekman, di ritorno a Roma dopo sette anni. Un cliente affezionato del Circolo, a quanto pare, visto che sempre qui l’allora enfant prodige dell’indie-pop nordeuropeo aveva presentato il suo primo lavoro When I said I wanted to be your dog (2004). Il trentunenne svedese ha ripercorso equilibratamente il suo repertorio, selezionando i migliori brani dei suoi tre dischi, l’ultimo dei quali, I know what love isn’t (2012) è un autentico gioiello per gli amanti del genere. Un convincente mix di tristezza e ironia, in perfetto stile lekmaniano.
A ben vedere, suscita ilarità già al suo primo apparire sul palco. Cappellino, giacchetta, camminata timida in cerca di disinvoltura. Un saluto al pubblico, e via con Become someone else’s, primo singolo estratto dall’album. Segue una serie di brani in cui ascoltiamo il Lekman più intimistico, raccolto, tenue, con chitarra ben stretta al petto ed occhi chiusi. Lo accompagnano gli arrangiamenti sobri di una formazione semplice ma efficace, in cui spiccano gli interventi sempre appropriati del violino, ormai elemento imprescindibile delle composizioni di Lekman.
Nella seconda parte del concerto sembra finalmente sciogliersi, e mostrare di sé il lato più giocoso. Saltella, gironzola qua e là, sorride divertito. Ha volontà di sorprendere, forse di scrollarsi di dosso l’immagine del ragazzo nostalgico e un po’ impacciato, titubante, tutto preso nel suo mondo interiore. Ed è così che veste i panni dell’intrattenitore, gioca con la sua drum machine per invitare il pubblico a danzare su ritmi estivi, spensierati, distesi. Insomma, l’ambiente è cambiato. Nelle fasi finali persino un duetto con il pubblico ormai “sedotto” sul ritmo reggae di Pocketful of money, schiocchi di dita a tempo e canto gospel.
Esce tra gli applausi, e il suo rientro sul palco somiglia a un ri-entrare in sé, nel sé più introspettivo, chitarra e voce nella sala buia. Il suo gesto suona provocatorio, come un: «stavo solo scherzando!», ma è un’autoironia che ammalia, non disturba. Al contempo ha il senso di un: «io non sono qui», suggerisce di approfondire, di scoprire, di incontrare le sfaccettature di un artista che ha altro da dirci, che non è solo uno dei tanti (o troppi?) eredi di Morrisey. Forse Lekman nasconde in sé i semi di un’arte autentica e destinata a durare; la sua è una maturità già acquisita, che tuttavia custodisce il resto di una promessa, una distesa di possibilità ancora non dispiegate.