Julien Donada | Les Visionnaires

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levisionnaires 
 Titolo: Les Visionnaires, di Julien Donada, Francia, 2013, 71’.
 Conversazioni Video. Festival Internazionale di Documentari su Arte e Architettura
 20-24 ottobre 2014
 Luogo: Casa dell’Architettura, Piazza Manfredo Fanti, 47

La seconda edizione di Conversazioni Video si è aperta lunedì 20 ottobre con la proiezione di Les Visionnaires, film documentario di Julien Donada che prova a ricostruire i rapporti fra architettura e utopia nell’Europa del secondo dopoguerra. Il compito è a dir poco arduo se si considera la complessità e la contraddittorietà di quelle esperienze ma Donada è molto abile nel costruire un documentario che scorre in maniera vivace e interessante, alternando un’enorme mole di materiale d’archivio ad alcune interviste fatte per l’occasione.

La costruzione storica che il documentario propone è molto chiara e prende il via negli anni ’50 quando, a fronte di un’incredibile vitalità economica e culturale, l’architettura europea rimane sottomessa ai rigidi paradigmi funzionalisti di inizio secolo. A salvarla da questa schiavitù ci pensa però il cosiddetto «pensiero utopico», capace, secondo la narrazione degli stessi autori, di immaginare un nuovo futuro per l’architettura.

Donada illustra questo approccio a partire dalla scena architettonica francese, che si forma all’ombra del libro dal profetico titolo Ou vivron-nous demain, scritto da Michel Ragon nel 1963. Progetti come le Maisons di Guy Rottier, le Cellules di Pascal Häusermann ma anche la Ville spatiale di Yona Friedman propongono di liberare l’individuo dalla schiavitù dell’abitare tradizionale e lasciano trasparire la connotazione estremamente attiva e concreta dell’utopia francese: priva di un preciso connotato politico, essa si fonda su un’estrema fiducia nella tecnica come strumento di soluzione di tutti i problemi domestici e urbani.

Un’interpretazione decisamente diversa è proposta da Archigram, gruppo inglese nato nel 1960, per cui il potenziale salvifico della tecnologia è contaminato da un ricchissimo immaginario pop. In maniera assolutamente serena e consapevole l’architettura è trasformata da Archigram in oggetto di consumo, destinato al leisure e all’entertainment, come nel caso della Instant City, una città costruita per ospitare un unico evento e poi scomparire.

La scena austriaca raccoglie esperienze estraneamente variegate, che vanno dalle protesi pneumatiche di Haus-Rucker-Co, alle figurazioni immaginifiche di Abraham, Pichler e St. Florian, agli edifici anti-gravità di Coop Himmelb(l)au: d’altronde «tutto è architettura», come afferma Hans Hollein nel 1968.

Il documentario descrive in ultimo le esperienze di Archizoom e Superstudio, due gruppi italiani accumunati dalle origini fiorentine e da una spiccata vocazione politica ma divisi da un approccio all’architettura radicalmente differente: rigidamente quantitativo e razionale quello di Archizoom, che trova la sua più compiuta espressione nella No-stop City, dove la città è ridotta ad uno spazio unico, dotato di aria condizionata e un bagno ogni 50 m; squisitamente simbolico quello del Superstudio, che in progetti come Gli Atti Fondamentali propone una rifondazione filosofico-antropologica dell’architettura.

Alla fine del film, una volta presentati tutti i protagonisti, il quadro paradossalmente si complica, in quanto non viene alla luce la chiave con cui leggere il rapporto fra architettura e utopia: da una parte i francesi, che forse più smaccatamente di tutti gli altri si definiscono «utopici», attaccano il ‘68 – famoso anche per lo slogan «l’immaginazione al potere» – per avergli impedito di portare avanti le loro sperimentazioni tecnologiche finanziate dalla grande industria; dall’altra gli italiani, i cui disegni appaiono oggi senza dubbio i più «utopici», hanno sempre professato odio per questo termine e per l’idea stessa di utopia.

Certo la colpa di questa ambiguità non è di Donada, che fotografa lucidamente l’incapacità di una cultura architettonica – e in primis degli stessi protagonisti di quelle esperienze – di leggere criticamente il proprio passato. Come afferma Adolfo Natalini, uno dei fondatori del Superstudio, i progetti di quella stagione esprimono oggi solamente qualità estetiche e artistiche, ma nessun valore critico. E probabilmente non ce l’avranno fino a quando, sotto un’unica etichetta peraltro fasulla, si vorranno collezionare esperienze, progetti e linguaggi che non hanno nient’altro in comune che la mera adesione alla realtà.

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