Kornél Mundruczó | White Dog
Lili & Hagen, Kornél Mundruczó, Ger/Ung 2014, 119’
Distribuzione Bolero Film
Dal finale di uomini che abbaiano come cani al pubblico di Disgrace, il romanzo del premio Nobel J. M. Coetzee, trasposto per il teatro dal regista ungherese Kornél Mundruczó, ai cani che invadono le strade degli uomini a Budapest dell’inizio di White Dog. Da una struggente vicenda sulla fine dell’apartheid in Sudafrica, che si trasforma in metafora dell’Europa di oggi, alla metafora animalista sulla supremazia dell’uomo bianco rispetto ai (cani) meticci. Il film del regista ungherese e vincitore di Un certain regard a Cannes lo scorso anno, arriva sugli schermi per comporre questa Sinfonia per Hagen – il nome del cane protagonista e sottotitolo del film – che narra le orribili avventure vissute da Hagen dall’abbandono fino al ritrovamento. Torturato e nutrito con schifezze chimiche per diventare un cane da combattimento, continuamente braccato dai gendarmi dei canili e cacciato da ogni luogo da uomini insensibili arriverà a guidare una rivolta di cani, con esiti splatter nelle scene di vendetta contro i soprusi subiti. Cani da educare, tenere alla catena, lavare. I cani, rinchiusi come i migranti, troppo a lungo repressi o soppressi nei campi di abominio e gli uomini, cani, artefici di provvedimenti violenti in difesa della purezza della razza, sono figure simboliche (la ragazzina adolescente protagonista è l’innocenza, alcuni adulti simboleggiano l’ignoranza, altri l’insolenza o l’intemperanza). L’uomo (cane) bianco non si rassegna: deve sottomettere e regnare sul nulla.
Continui latrati di cani, un’umanità devastata e devastante, una città glaciale e imperturbabile, fanno da sfondo alla capacità registica di creare e mantenere scenari ogni volta diversi: melodrammatici, ironici, minimali, satirici, musicali, politici, narrativi unita a grandi livelli di immedesimazione attoriale da parte del manipolo di attori ammirati nei teatri di mezzo mondo nel già citato Disgrace. Tutti questi elementi sono davanti a una macchina da presa che afferma una ragione naturale nella rivolta di chi è quotidianamente oggetto di segregazione. Chissenefrega dei recinti e delle paure altrui: io voglio vivere, io devo vivere. Non si tratta però di un lupus homini lupi ma di trovare soluzioni intermedie tra uno Stato che tutto controlla attraverso il pagamento di dazi come la patente di esistenza e il caos incontrollato del branco di esistenze tra pozzanghere e baracche. Insomma siamo lì, nelle favelas sudamericane, nei ghetti del Sudafrica, nei CIE italiani e nei tanti campi di concentramento di esseri di cui è piena la storia passata e presente degli esseri umani. Probabilmente alcune sequenze sono forse troppo teatrali dal punto di vista della dinamica narrativa, soprattutto il finale, ma non si può negare che siano affascinanti. Su tutte la soggettiva del progressivo sfascio della ragazzina protagonista (Zsófia Psotta) ad un rave e la scena iniziale con circa duecento cani che corrono per le strade di Budapest e che ricordano due altri inizi desertici memorabili: 28 giorni dopo e Vanilla Sky. Agghiaccianti e perfetti i costumi, di una quotidianità eccitante ed esasperante compresa la divisa da teenager di Zsófia: felpa con cappuccio, jeans stretti ai polpacci e converse basse – che poi mi sembra sia la stessa che portavano i fanciulli di E.T.. Un bel lavoro di scenografia nelle sequenze dell’addestramento di Hagen a diventare un cane da combattimento e una fotografia chiara senza troppe sovraesposizioni – come va di moda ora – corredano il film. Un’odissea che naviga tra incontri, continue fughe, scontri e vendette.