Potremmo definirli tecnicamente Arbëreshë di nona migrazione, se proprio volessimo inquadrarli da un punto di vista etnografico. Un popolo che dal 1400 non riesce più a smettere di peregrinare, sostando di tanto in tanto in qualche campo di concentramento, dove tutto è spennellato di grigio e verde, lo stesso colore della merda. Il termine Italianesi non indica fusione, ma precario accostamento di due identità che si annullano vicendevolmente, che si disintegrano violentemente, lasciando cicatrici incancellabili nel corpo e nell’anima. Italiani o albanesi, non è dato di sapere. Fascisti per gli uni, miserabili per gli altri.
Assistiamo attoniti a uno dei tanti strascichi di odio della Seconda Guerra Mondiale, passato a livellare la multiforme bellezza delle minoranze etniche. Ma la cinica realtà, impregnata di uno sprezzante mito della razza, è superata dall’immaginazione di un uomo puro, un sarto, che i colori li ha già tutti fissi nella mente: brillanti e vivaci come la vita, quella sognata per un’intera esistenza di atrocità. L’intera gamma di nuance si completa con il colore dell’amore, identificato con quella ragazza dal viso gentile, con i capelli gialli dello stesso colore del grano e gli occhi chiari come il cielo.
«Allora, qual è il colore che ti manca?». «Sei tu», risponde il protagonista alla fanciulla curiosa, scappando via per la vergogna.
Ogni battuta pronunciata da Saverio La Ruina è una raffinata lirica d’amore, di una delicatezza commovente, in cui le parole, benché pronunciate in un dialetto sgrammaticato, sembrano cucite tra loro da un abile artigiano. Il protagonista lascia parlare il fanciullino che ha dentro di sé, che guarda il mondo con infantile meraviglia e rimane a bocca aperta di fronte alla stupida logica della malvagità. Dietro al suo ingenuo modo di essere, che potrebbe sembrare un limite, c’è un’il-limitata, e ormai rara, capacità di inseguire un ideale con la fedeltà di un amante serio e appassionato, innamorato dell’Italia così come della vita. Una fedeltà che non è più di questo mondo. Sentire raccontare le sue storie sarebbe musica soave, se non fossero così amare. Anzi, agrodolci. Perché le umiliazioni, le torture, le botte che anestetizzano il corpo, i sotterfugi meschini degli ufficiali, la rivalità tra etnie, l’allontanamento forzato dai propri cari, sono situazioni narrate con un’innocenza che disarma, intervallate da memorie di serafico candore. E noi viviamo, soffriamo, ci commuoviamo assieme a lui. Speranza e sogno sono i pastelli che colorano questo universo grigio e verde, dello stesso colore della merda. E così i suoi pensieri diventano quadri di Mirò. Altrimenti, come accettare l’idea di donne e bambini dimenticati per quarant’anni in un campo di prigionia, in Albania, in attesa di riabbracciare i propri cari, a loro volta rimpatriati in Italia con la condanna di attività sovversiva?
Se questo è un uomo, ci chiediamo, un’altra volta, assieme a Primo Levi, di fronte all’ennesima tragedia della storia, rappresentata da una sedia di metallo trascinata faticosamente per tutta la scena, a causa di una gamba claudicante. Un dramma silenzioso, per la verità, in cui i protagonisti recitano il copione di un film muto: talvolta ironico e leggero, ma pur sempre silenzioso e demodé. Non si ha voce per parlare. Il regista non accorda questo diritto agli attori. E muti se ne vanno, come anime inquiete, a girovagare nel limbo della loro identità, dove non parla, non suona e non canta nessuno. Cinque giorni in Questura e zitti!
Pensiamo alla dolcezza di quel dialogo e sorridiamo malinconicamente:
«Papà, dove andiamo?»
«Eh, andiamo nel posto più bello del mondo: l’Italia. Non c’è cosa più bella che essere Taliani»
ITALIANESI
di e con Saverio La Ruina
musiche originali Roberto Cherillo
disegno luci Dario De Luca
Dal 28 novembre al 3 dicembre 2011, Teatro India – Roma