Va in scena in prima nazionale al Teatro Eutheca dal 17 ottobre al 3 novembre, La donna del mare di Henrik Ibsen, per la regia di Carlo Fineschi. Il capolavoro del drammaturgo norvegese, scritto sul finire dell’Ottocento, inaugura il cartellone del Teatro Eutheca con una storia conosciuta dalle pieghe di una recondita attualità, quella oscura, di un animo che muove verso la propria salvezza.
La donna del mare di Henrik Ibsen
Regia: Carlo Fineschi
Con: Federica Tatulli, Domenico Cucinotta, Craig Peritz, Camillo Ventola, Salvatore Costa, Stefano Chiliberti, Francesca Lozito, Vittoria Galli
Scene: Venunska Nanni
Costumi: Mariella D’Amico
Disegno luci: Luca Barbati
Aiuto regia: Vincenzo Ciardo
La vicenda del dottor Wangel (Domenico Cucinotta) e della sua seconda moglie Ellida (Federica Tatulli) è un matrimonio in crisi per una presenza visionaria di lei, il ricordo dell’uomo amato in gioventù, legato alla vita di Ellida da una promessa fatta con due anelli gettati in mare. Ellida appartiene al mare, non ha messo radici sulla terraferma. Partendo da lì, non avrebbe chiavi da riconsegnare. Sa che le onde faranno approdare l’amato alla sua riva. Quando ciò accade, Ellida deve scegliere: partire con lo Straniero o dimenticarlo per sempre. Wangel è medico, ma confida al professor Arnholm (Camillo Ventola) che per la malattia di Ellida non bastano i medicamenti: Wangel è impotente. Ellida deve scegliere liberamente, dice lo Straniero (Craig Peritz), eppure non è libera, perché non conosce l’identità del suo amore sognato, né di quello vissuto. Lo conoscerà, quando Wangel le concederà lo scioglimento del matrimonio: solo in quel momento Ellida noterà la distanza tra un amore tangibile e uno anonimo, girovago, fatto di simboli e ipnosi del passato. Il processo richiama la tesi di Kierkegaard, più tardi sottolineata da Freud, per cui il rimedio per una mente malata sta in una sorta di costrizione, una scelta decisiva: nell’attuare la «situazione analitica».
Per quanto si ricordino le critiche di oscurantismo all’opera di Ibsen, nonché l’opposto entusiasmo dei simbolisti, vale la pena sapere che il leitmotiv dell’opera è autobiografico (una donna di cui Ibsen fu innamorato con cui gettò gli anelli in mare) e che alla base del tema delle ombre e del simbolo c’è una filigrana intessuta di precisissima realtà, che permette, un secolo dopo, una rappresentazione perfettamente attuale. Il regista Carlo Fineschi ha ideato un teatro itinerante, in cui il pubblico viaggia all’interno della scenografia, attraverso il giardino, lo stagno delle carpe, il salotto, la veranda e la torre belvedere sul mare. Abbiamo l’impressione, forse la suggestione, di essere in quella «valle soffocante», da cui potremmo avere l’impulso di voler portare via noi stessi i personaggi sofferenti, la donna del mare, lo scultore che aspira ad altre forme di vita (Stefano Chiliberti), le figlie di Wangel che non conoscono il mondo (Francesca Lozito e Vittoria Galli).
Ma anche noi ci sentiamo impotenti. Abbiamo paura dello Straniero, perché sentiamo che alberga in ognuno di noi: gli attori ci coinvolgono in un gioco di ruolo in cui siamo alternativamente la donna del mare, il marito impotente, le figlie costrette, talvolta lo Straniero. Gli attori sussurrano parole, non le declamano. C’è un divano, due coniugi discutono e noi potremmo essere il vicino che scruta dalla finestra, eppure abbiamo l’impressione di essere invitati. È un gioco, una metafora, è una costante: viaggiamo all’interno di stanze che non sappiamo di possedere, abbiamo dentro la burrasca di un mare, da fuori ci guardano, ma siamo noi che dobbiamo scegliere: partire oppure restare.