LA SUBLIME MEDIOCRITÀ DELLO ZERO

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 JAKOB VON GUNTEN

dal romanzo di Robert Walser
drammaturgia e regia Lisa Ferlazzo Natoli
con Alberto Astorri, Andrea Bosca, Emiliano Masala, Monica Piseddu
scene e costumi Fabiana Di Marco
disegno luci Luigi Biondi
disegno sound Alessandro Ferroni
suono Fabio Vignaroli
aiuto regia Alice Palazzi
assistente alla regia Elisa Di Francesco
assistente drammaturgia Mattia Cinquegrani
produzione esecutiva Simona Patti
produzione Lacasadargilla Tsi La fabbrica dell’attore, Teatro Vascello
in coproduzione con Festival in Equilibrio Armunia
in collaborazione con Teatro di Roma, Liberi Investitori
 

dal 12 al 17 giugno 2012, ore 21.oo

Teatro India, Roma

 

Ispirato al romanzo di Robert Walser, Jakob Von Gunten è un giovane di buona famiglia, scappato di casa per sottrarsi ai valori della borghesia, con l’intenzione di iscriversi a una scuola per servitori. Giunto nell’istituto Benjamenta, si accorge in fretta di essersi rinchiuso in una scuola-carcere in cui i docenti rimangono muti, apparentemente morti, e gli allievi sono costretti a fissare il vuoto, immobili, con le mani sulle ginocchia. Il severo e aspro direttore, Benjamenta, li obbliga ad eseguire quotidianamente le pulizie domestiche; la sola docente attiva all’interno della scuola è Lisa – sorella del direttore – che impartisce ostinatamente agli allievi lezioni di buona condotta. Kraus è il terzo personaggio con cui Jakob entra in contatto: è un ragazzo diligente e zelante, che incarna il modello al quale il metodo Benjamenta aspira, ovvero l’annullamento di sé per diventare il servitore perfetto.

La scuola punta dunque a sostituire l’anelito al successo e l’arrivismo borghese con la subordinazione, l’arte del servilismo. «Benjamenta è uno dei tanti luoghi di potere che all’educazione sottendono il saper obbedire, ma è anche un posto che presuppone una rescissione radicale dal mondo, un prepararsi ad uscirne annichiliti, per toccare un territorio vertiginoso, dove l’abiezione più grande ha il sapore del sonno e dello zero assoluto», si legge nelle note di regia. Ed è questo che impara Jakob: a diventare piccolo e subordinato, rimanendo sconosciuto a se stesso, incapace di accogliere per intero il senso della vita.

Il misterioso edificio che fa da cornice alla vicenda è un non-luogo polveroso e scricchiolante. Il campo lungo del palco ospita un labirinto illuminato per tagli, profondo e scuro. I tre armadi diventano stanze, corridoi, minuscole scrivanie, letti; i personaggi li attraversano continuamente utilizzando ante che si trasformano in porte e finestre. È in questi non-luoghi che avvengono i falsi cori dei personaggi: soliloqui che si sovrappongono, immersi nei bisbigli e rumori che raccontano l’istituto. Parlare a se stessi in presenza di altri è ciò che meglio descrive l’azione scenica di ognuno; all’interno del diario di Jakob non sussiste progressione alcuna e i rarissimi momenti di contatto tra i personaggi costituiscono gli unici dialoghi.

Costantemente in scena, gli attori eseguono due diverse partiture che si intrecciano, una parlata – fatta di ripetizioni che danzano sulle labbra – e una fisica – fatta di azioni e pause insostenibili. Viene a crearsi, dunque, un disegno pittorico a più piani, in cui la narrazione non può che farsi piccola e inconsistente. Nell’ossessione per la cura di oggetti e pratiche insignificanti, Jakob percorre all’indietro la scala sociale dell’esistenza, sotto riccioli di polvere imbiancata che cadono dall’alta tramoggia legata al soffitto, come fossero fiocchi di neve. Sprofondato nell’eco di risate e sussurri, il protagonista continua ad oscillare tra bramosia di successo, e desiderio di sublime mediocrità. «Nella mia vita futura, sarò un magnifico».

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Webmaster - Redattore Cinema

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