Proiettato a Il Kino, L’arte della felicità di Alessandro Rak rappresenta uno dei primi seri tentativi di sdoganare anche in Italia l’animazione per il pubblico adulto con tematiche decisamente attuali.
L’arte della felicità, di A. Rak, Ita 2013, 76′
Sceneggiatura: Alessandro Rak, Luciano Stella
Produzione: Big Sur, Mad Entertainment, Rai Cinema
Musica: Luigi Scialdone
Distribuzione: Cinecittà Luce
Oppresso dal passato, ansioso verso il futuro e perso in un presente piovoso.
Un limbo grigio e incerto che ha i contorni di un Taxi in continua corsa per le vie di Napoli. In questo luogo Sergio affronta la sua guerra personale elaborando il lutto della morte di Alfredo, fratello e compagno di musica partito per un monastero Buddista e ora di colpo sparito per sempre dalla sua vita. Un viaggio onirico e frammentato immerso tra la rammemorazione così ingombrante e dolorosa del passato perduto e l’attesa di un futuro che non lascia speranze.
Alessandro Rak, giovane disegnatore napoletano, confeziona con un piccolo team uno dei pochissimi tentativi di animazione italiana “adulta”. Nonostante la vistosa strizzata d’occhio a un certo tipo di animazione sperimentale di cui Rak si appropria – con cognizione di causa nel saperla far convivere con un’anima fortemente partenopea – il film offre una commistione più vicina agli esperimenti visivi di Linklater in Waking Life che non alla classica scuola giapponese. L’animazione viene usata per dilatare, modellare e distorcere ogni singolo pensiero professato da Sergio nei lunghi dialoghi/monologhi svolti dentro il suo Taxi. Tutto ciò non è solo una scelta stilistica, ma un preciso strumento narrativo capace in molti frangenti di dare giusto supporto al testo che, va detto, finisce purtroppo per cadere troppo nel didascalico.
I continui fade-out strutturano il film con micro-situazioni confuse, tanto per lo spettatore che per il protagonista: brevi frangenti che segnano capitoli di piccoli episodi quotidiani, in continuo rimbalzo fra flashback e presente, attualità e critica, singolo e universale. Le riflessioni di Sergio nel suo affrontare un lutto incolmabile per tornare alla vita e ridonarle senso lo portano a interrogarsi su ogni aspetto dell’esistenza: dall’immondizia di Napoli alla religione, dall’arte moderna all’amore. Un’escatologia profetica senza una reale continuità, in un miasma così ingarbuglato a cui nemmeno la narrazione in questo caso sembra riuscir a dare un preciso ordine.
Nonostante l’aria a volte rozza e il tentativo di puntualizzare a tutti i costi aspetti che avrebbero guadagnato di più a essere trattati in modo più soffuso, L’Arte della Felicità è un’opera toccante, fatta di cuore più che di tecnica. La padronanza di Rak è indubbia e, nonostante i mezzi a volte finiscano per non sorreggere a pieno la sua poetica, il lungo non-viaggio di Sergio nella riappropriazione di se stesso e di ciò che gli è familiare riesce a rimettere in gioco temi che molte volte non è facile trovare nel cinema. Se L’arte della felicità è solo l’inizio della carriera di questo promettente autore allora non possiamo che essere estremamente fiduciosi su come possa evolversi in futuro.
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