DELLA LIBERA RESURREZIONE: IL LAZZARO DI CARAVAGGIO

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Palazzo Braschi ospita, al buio suggestivo di una delle sue grandi sale, l’enorme pala realizzata da Caravaggio durante il suo breve soggiorno da fuggiasco braccato in Sicilia; un’opera ritornata al suo antico splendore grazie al  lavoro effettuato dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro.

Il dipinto in questione è la Resurrezione di Lazzaro.

È buio. Buio di tomba. Di dolore abissale. Una pietra, a chiudere il sepolcro, non fa passare nessuna luce. Nessuna speranza. Ora è soltanto terra, soltanto morte. Morte corporea? Certamente nel caso del personaggio biblico ritratto. Ma attenzione, non siamo di fronte a una semplice rappresentazione rievocativa. Quest’opera è anzitutto teologia.  E come tale, rifiuta la visione distratta dello spettatore dissociato. Per cogliere il cuore dell’opera occorre immergersi in quel buio, in quella tomba senza speranza. Far proprio il freddo del sepolcro, sentirlo sulla pelle. Respirarlo.

Chi è Lazzaro? L’uomo morto già da quattro giorni, il cui pallore fa intuire lo stato irreversibile di decomposizione? Qual è la natura di quel sepolcro chiuso da un macigno inamovibile che sbarra la strada a qualsiasi possibile futuro?

Lo sapeva bene il committente, Giovan Battista de’ Lazzari che ha scelto proprio questo soggetto per  l’altare superiore della Chiesa dei Crociferi di Messina (demolita nel 1879): ogni fedele poteva impersonificarsi in quel corpo di una bianchezza priva di vita, giacente in un antro divorato dalle tenebre del proprio passato in un presente di insostenibile immobilità.

L’opera si presenta carica di una forza drammatica estenuante, ricca di personaggi, ognuno con la sua posa, tanto naturale quanto simbolica. I becchini sono di ritorno dal sepolcro con la salma di Lazzaro tra le braccia e Cristo irrompe sulla scena puntando il dito verso il corpo bianco in posizione di crocifisso, gridando “Vieni fuori!”. Vieni fuori; dalla tua morte, dal tuo passato schiacciante, dal tuo presente privo di futuro. Il gesto della mano, così simile alla precedente “Vocazione di San Matteo” ha il sapore di una scelta, quello di una chiamata personale. Il piede sinistro, nel suo puntare verso l’esterno, prefigura la veloce uscita di scena, rapida come la sua entrata: Cristo nel suo passare, ha scelto, porge e offre la salvezza. Ma l’offerta dura un attimo. La si può agguantare, la si può rifiutare, ma la si può anche ignorare, come coloro che, nella “Vocazione”, continuano imperterriti a contare i loro quattro spicci. La luce della parola di Dio, irradiata da dietro le spalle di Cristo, viene fatta confluire attraverso il gesto della mano sul cadavere che viene letteralmente invaso da un raggio luminoso vivificante. La sorella Marta china il viso su quello di Lazzaro, per lasciarsi investire dal primo respiro dell’amato fratello creduto perso per sempre e che ora risplende della luce di Dio. Una luce che dissolve le tenebre e che sembra emanare lo stesso corpo esanime tanto da illuminare fiocamente anche i presenti, coloro che, apparentemente, sembrano vivi.

Ma il fulcro dell’opera, il gesto che ne dischiude il contenuto di verità e che si trova peraltro esattamente al centro del dipinto, è costituito dalla mano destra di Lazzaro, il quale, di fronte alla chiamata di Cristo, alla proposta di trasformare il giogo di quella croce invisibile a cui è inchiodato in strumento di gloria, ha la possibilità di due scelte. Afferrare la salvezza o rifiutarla. Tornare alla vita o restare, più facilmente, nella propria tomba, sussurrando un clamoroso addio alla vita. È la libertà dell’uomo, la possibilità mai negata di rifiutare Dio, grandiosamente simboleggiata dalla dialettica tra mano destra e mano sinistra, che invece è grevemente protesa verso la terra.

Come interpretare dunque quel gesto della mano destra? È tesa verso l’alto, verso il fascio di luce che ne illumina il palmo, quasi per raccogliere meglio quel soffio vitale che penetra nella carne e nelle ossa ridandogli calore? O è forse una folle rinuncia alla salvezza, un sospirare stancamente: “aspetta, no, non sono pronto, non voglio tornare alla vita. Lasciami, lasciami qui, avvolto dalle tenebre, la luce mi farebbe vedere troppo, e non sono più in grado di portarne il peso”?

È questo, a mio avviso, il nucleo teologico del dipinto, l’interrogativo che Caravaggio e i suoi committenti desideravano suscitare nello spettatore, portandolo a riflettere sulla propria situazione spirituale attraverso la rievocazione dell’episodio biblico.

Nel caso di Lazzaro, tutti sappiamo che quel gesto della mano destra è l’estrema invocazione d’aiuto di un uomo conteso allo stesso tempo dal desiderio di salvezza e dallo spirito di gravità che lo trascina verso il basso, verso la terra. Sembra quasi sentirlo pregare “Aiutami, aiutami, da solo non riesco, mi sento sprofondare… aiutami”. Cristo è passato per lui, e di certo non se l’è fatto scappare, realizzando pienamente l’invito a uscire fuori. Fuori da se stesso, dalla sua morte vissuta con così largo anticipo, Lazzaro è pronto a gustare e affrontare una nuova vita, nella certezza che non esiste sepolcro che Cristo non possa spalancare e inondare di luce.

CARAVAGGIO E LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Museo di Roma Palazzo Braschi, 15 Giugno – 16Luglio 2012

foto Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1608-1609.

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Webmaster - Redattore Cinema

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