da William Shakespeare regia Leonardo Buttaroni con Diego Migeni, Alessandro Di Somma, Marco Zordan, Daniela Kofler, Yaser Mohamed, Gioele Rotini, Matteo Fasanella, Virginia Arveda, Valerio Persili scenografia Paolo Carbone costumi Cristina Picuti musica Alessandro Forte luci Pietro Fasaro aiuto regia Velia Viti trucco Marianna Vuotto foto Manuela Giusto prodotto in collaborazione con la Compagnia Mauri – Sturno, e realizzato con La Cattiva Strada e l’Accademia di Musica e Teatro Nomos
8 Gennaio 2015, Teatro Trastevere
Il Teatro Trastevere ospiterà per tre settimane di repliche il nuovo lavoro proposto dalle Cattive Compagnie: Titus – Commedia Pulp, produzione dalle tinte grottesche che il regista Leonardo Buttaroni ha liberamente tratto dalla prima tragedia scritta da William Shakespeare, il Tito Andronico.
L’intricata trama shakespeariana, fatta di inganni di palazzo, vendette e sangue, carica dei più bui e meschini lati dell’umano, è una lucida analisi dei meccanismi del potere, ed è terreno fertile per la ricerca del regista, che ne trasfigura le fattezze mantenendo la quasi integralità del testo, portando al paradosso alcuni dei suoi aspetti crudeli e grotteschi. Il lavoro tende ad una chiave di lettura nuova e si avvicina a quello stile pulp che ha reso celebre Tarantino e i suoi lungometraggi: il testo, tragico in origine, si carica di un’assurdità che sfocia in una comicità grottesca e a tratti realistica. Il salto ardito che Buttaroni fa tra il Bardo e Tarantino è possibile per la natura stessa della drammaturgia, profondamente violenta, scritta da uno Shakespeare che si ispira al Seneca tragico. Non si risparmia, dunque, dal mostrare esplicitamente la violenza fisica sulla scena, in alcuni istanti disturbante ed eccessiva. Rimane estremamente intrigante l’uso che si fa delle parole, vera fonte di ossessiva perversione e motore dell’inganno, che scivolano agilmente sulle labbra degli attori, abili nel rendere moderno e attuale uno scritto classico. L’universalità dei versi shakespeariani viene modellata dagli interpreti, che a loro volta si modellano su questi, creando dei personaggi concreti e reali, sporchi dei loro pensieri e delle loro azioni.
Questi personaggi si muovono in un mondo che riflette perfettamente le trame dei loro inganni, in particolare quelli di Aronne, Alessandro Di Somma, perfido burattinaio che guida le loro sorti senza alcuna morale, se non quella di perseverare nel disprezzo e nell’odio, sfumature umane complesse e di difficile rappresentazione, ma ricercate con profondità e precisione dall’interprete. Le sue macchinazioni sono talmente profonde da diffondersi nell’atmosfera e sembrano caratterizzare la scenografia di Paolo Carbone, un intricato bosco avvolto di plastica che filtra una luce oscura, una ragnatela che imprigiona soffocando tutti, dal quale lo stesso Tito, interpretato da Diego Migeni che con la sua presenza potente porta agli spettatori fierezza, eroicità ed onore, con difficoltà riesce a divincolarsi, procurandosi ferite impossibili da rimarginare.
La narrazione si divide in quattro prospettive che seguono il filo logico dei quattro personaggi principali, a mo’ di soggettiva cinematografica tarantiniana. Questa scelta stilistica rende il testo più vicino allo spettatore, ma non è sempre colta appieno, forse per la difficoltà che si pone nello svincolarsi dall’apparato tipico del teatro all’italiana, che costruisce, a causa della sua propria natura, una quarta parete fra palco e platea.
Gli spettatori sono investiti e soggiogati dallo spettro delle passioni oscure, assistono ai meccanismi della vendetta e si ritrovano a contemplare febbrilmente la lucida follia, giustificandola come un’affascinante aspetto dell’umano, desiderando ardentemente, anche per un solo secondo, di pentirsi di qualsiasi buona azione mai compiuta.