Da mercoledì a domenica è stato proiettato, in anteprima nazionale a Il Kino, il documentario di François Farellacci, L’Île des Morts, sua ultima opera dopo Famille. Il film è stato presentato anche al Torino Film Festival. Il regista era presente in sala e, dopo la proiezione, si è intrattenuto con gli spettatori per un’interessante chiacchierata sul film, la Corsica e i suoi progetti futuri.
L’Île des Morts, di François Farellacci, Doc., Fra 2012, 60′
Fotografia: François Farellacci, Yannick Casanova
Montaggio: Sylvie Laugier
Suono: Michel Liabeuf, Vincent Piponnier
Produzione: Stella Productions in collaborazione con France Television
Vita o morte.
Affermava il saggio Sileno: «Ciò che per te è la cosa migliore di tutte, ti è irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir subito».
Il documentario di François Farellacci prende spunto da un episodio autobiografico, la morte della nonna del regista, uccisa in un incidente stradale nel 1982, per proporre un’analisi antropologica, esistenziale, e forse filosofica, sul modo d’intendere l’idea di morte in terra corsa. Lapidi situate ai bordi delle strade appaiono in sequenza nelle prime scene del film.
La Corsica è la regione francese con più incidenti stradali. Armi e alcool sono ampiamente diffusi tra la popolazione; ma il ritratto che Farellacci vuole mostrarci non è certo quello di una terra degradata. Tutt’altro. Attraverso le varie interviste, scopriamo come sia profondo il legame con la morte, una sorta di vicina iperpresente che può manifestarsi da un momento all’altro e senza preavviso.
Il regista, fortemente attaccato, quasi ossessivamente, alla terra natia, nel documentario è una sorta di Virgilio che ci accompagna, con le sue domande, nelle diverse interviste. Per Farellacci: «violenza fisica, autodistruzione del sé e culto un po’ strano dei morti sono i tre pilastri del rapporto con la morte». Il culto dei morti è infatti molto profondo, alcuni credono che essi vaghino tra di noi come fantasmi. La morte non è qualcosa di astratto; essa si concreta, in maniera silenziosa, nelle parole degli intervistati, nelle loro esperienze di vita.
Non vediamo né funerali, né anziani moribondi. La morte è latente, assente nella sua continua e massiccia presenza nella vita di ognuno degli intervistati. Appare e nessuno sembra averne paura. Farellacci si chiede se «la presenza della morte sia una possibilità per una vita più libera, di maggiore intensità oppure sia qualcosa di totalmente mortifero», uno sprofondare. Forse il fare i conti con essa ci ricorda il nostro essere sempre in bilico.
La cultura agropastorale, nonostante le veloci innovazioni che l’isola ha subito negli ultimi quarant’anni, è ancora fortemente presente. La morte autentica è sempre quella dell’altro, mai la propria, e vivere significa pro-vocarla. Riprendendo una definizione del regista: «la morte, in Corsica, sembra non essere qualcosa di naturale. Nasce sempre dal contatto con l’altro, in maniera volontaria o involontaria la porti all’altro e viene portata dall’altro a te». Il rapporto con la morte esiste poiché l’altro è presente.
Nelle ultime scene incontriamo dei ragazzi di Lupino, periferia di Bastia. Molti di loro hanno tatuate le iniziali o il nome di un parente deceduto. Sembra essere un modo per incidere il ricordo sul corpo al fine di non debellarlo, un essere continuamente testimoni della morte nella rimembranza di chi ha vissuto accanto a noi. In Corsica si vive finché non si viene dimenticati. L’isolamento è il primo sintomo e la prima manifestazione di un approccio e di una cultura differenti di fronte alla morte.
Un ragazzo si è fatto tatuare sul braccio, da un compagno di classe, tre linee che s’intersecano tra di loro formando una sorta di triangolo scaleno. A lato di ogni angolo tre lettere differenti, C-S-C, acronimo dell’espressione nazionalista “Corsu e sempre corsu”. Con le parole di uno degli intervistati: «alimentiamo un vivaio di futuri morti». Vita e sempre morte.
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