L’INVISIBILE VELO NERO

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Scenario chiuso, sull’imponente cornice scenografica la scritta EUKARYOTA • ANIMALIA • VERTEBRATA • TETRAPODA • MAMMALIA canalizza lo sguardo dello spettatore come un monito: sono i termini scientifici di classificazione degli esseri viventi per indicare cavallo, cane, ratto e, non a caso, uomo.

Buio totale e musica assordante preparano ad entrare in un’altra dimensione, quella dell’immaginazione. Proiettati in giochi di ombre, si assiste alla sensazione di essere travolti da un vortice di neve che porta in alto granelli di terra nera:  essa è la cosa che più ricorda il velo nero del Pastore, protagonista dell’omonimo romanzo The minister’s black veil di N. Hawthorne, che è punto di partenza della creazione del regista Romeo Castellucci. La decisione del Pastore Hooper di velarsi il volto per tutta la vita dà modo di pensare all’invisibile che, attirando lo sguardo sconcertato dei concittadini, si mostra e svela, nascondendosi, in un continuo alternarsi.
Esattamente come fa il sipario che a scena vuota retrocede ed avanza, a ritmo di una coinvolgente tempesta musicale, per scoprire prima un uomo disteso a terra, poi il fantoccio di un cavallo, da ultima una donna nuda che si libera di una palla di piombo: non una parola, soltanto respiro e gemiti ad accompagnare i movimenti. Siamo solo animali senza linguaggio verbale. Questo sipario-velo, illuminato da dietro, rivoltato, invita ad un cambio di prospettiva, forse proprio quella antropocentrica, in cui da troppo ci siamo relegati. Invece, è proprio in quanto animali che siamo in grado di riconoscere d’istinto la forma e di empatizzare le sensazioni altrui: ogni spettatore è intimamente connesso con quella donna che, accecata da colpi di luce, cade molte volte a terra, ma ad ogni invisibile colpo si rialza, anche quando si aggiungono rombi di suono che arrivano a stordirla ancor prima della luce: il suono è la via più breve per raggiungere una sensazione, sfiorandoci senza riuscire a vederlo e senza poterlo comprendere del tutto.

A denti stretti, assaliti da luce e rumore, subiamo l’entrata di un vagone treno che nel suo lento delinearsi sfonda la quarta parete (invisibile) della scena: gesto di straordinaria imponenza che sembra far dimenticare la fragilità, l’impotenza e i limiti umani proprio attraverso le macchine che l’uomo stesso ha inventato. Per pochi minuti, tutto sembra possibile: oltrepassando la struttura scenica, si invita ad un ancor più difficile superamento di quella mentale. Ma ben presto si deve tornare alla realtà della condizione terrena, chiudendo il sipario sul fumo nebbioso del vagone che se ne va, per lasciare il posto ad un’asta metallica che sorregge una serie di lampadine alimentate tramite un meccanismo rotatorio. Proprio in virtù di tale meccanismo esse di necessità esplodono, come magistralmente evidenziato dai suoni di frantumi, creati dal musicista Scott Gibbons, tanto perfetti da generare un’indiscernibilità sensoriale tra movimento che produce suono e suono che produce azione. Ciò ben rappresenta il cortocircuito emotivo dello spettatore, forse simile a quello provato dalla comunità anglicana, smarrita nel non poter più vedere il volto del suo Pastore.

Lo spettacolo Il velo nero del pastore è una sorta di rapimento contemplativo di potenti immagini evocative. Come il regista che non ricerca mai una lettura interpretativa o un commento di un’opera preesistente, così lo spettatore si concentra sull’atto del suo guardare, vedendosi creare lo spettacolo, nel dare un ordine mentale alle immagini apparentemente sconnesse. Oggi, l’arte non richiede più un autore come produttore, come per Benjamin, ma uno spettatore che nel suo raccoglimento diventa produttore. Ciò è essenziale per tentare di comprendere l’opera d’arte, in una piena reversibilità di guardante e guardato e tramite la soggettività dello spettatore che legge immagini iconiche, incarnate dall’attore. Egli funge da esempio: esso viene esposto, come nel museo dell’orrore in cui la donna viene appoggiata alla lastra trasparente contenente topi grigi: essi sono ciò che resta, e non è poco, del coro tragico.

 

IL VELO NERO DEL PASTORE – Socìetas Raffaello Sanzio

liberamente tratto dall’omonimo racconto di N. Hawthorne

Messa in scena, scenografia, luci  Romeo Castellucci

Musica originale  Scott Gibbons

Assistente alla regia  Silvia Costa

Assistente alla drammaturgia  Piersandra Di Matteo

Sculture e meccanismi  Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso

Collaborazione alla scenografia  Giacomo Strada

Produzione  Benedetta Briglia

Organizzazione  Gilda Biasini, Valentina Bertolino, Cosetta Nicolini

 

Dal 10 al 13 novembre 2011 – Teatro Vascello, Roma

Romaeuropa Festival 2011

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Autore

Ludovica Marinucci

Project Manager di Nucleo, mi occupo delle partnership e della promozione del nostro progetto editoriale. Scrivetemi a progetto@nucleoartzine.com

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