Scenario chiuso, sull’imponente cornice scenografica la scritta EUKARYOTA • ANIMALIA • VERTEBRATA • TETRAPODA • MAMMALIA canalizza lo sguardo dello spettatore come un monito: sono i termini scientifici di classificazione degli esseri viventi per indicare cavallo, cane, ratto e, non a caso, uomo.
Buio totale e musica assordante preparano ad entrare in un’altra dimensione, quella dell’immaginazione. Proiettati in giochi di ombre, si assiste alla sensazione di essere travolti da un vortice di neve che porta in alto granelli di terra nera: essa è la cosa che più ricorda il velo nero del Pastore, protagonista dell’omonimo romanzo The minister’s black veil di N. Hawthorne, che è punto di partenza della creazione del regista Romeo Castellucci. La decisione del Pastore Hooper di velarsi il volto per tutta la vita dà modo di pensare all’invisibile che, attirando lo sguardo sconcertato dei concittadini, si mostra e svela, nascondendosi, in un continuo alternarsi.
Esattamente come fa il sipario che a scena vuota retrocede ed avanza, a ritmo di una coinvolgente tempesta musicale, per scoprire prima un uomo disteso a terra, poi il fantoccio di un cavallo, da ultima una donna nuda che si libera di una palla di piombo: non una parola, soltanto respiro e gemiti ad accompagnare i movimenti. Siamo solo animali senza linguaggio verbale. Questo sipario-velo, illuminato da dietro, rivoltato, invita ad un cambio di prospettiva, forse proprio quella antropocentrica, in cui da troppo ci siamo relegati. Invece, è proprio in quanto animali che siamo in grado di riconoscere d’istinto la forma e di empatizzare le sensazioni altrui: ogni spettatore è intimamente connesso con quella donna che, accecata da colpi di luce, cade molte volte a terra, ma ad ogni invisibile colpo si rialza, anche quando si aggiungono rombi di suono che arrivano a stordirla ancor prima della luce: il suono è la via più breve per raggiungere una sensazione, sfiorandoci senza riuscire a vederlo e senza poterlo comprendere del tutto.
Lo spettacolo Il velo nero del pastore è una sorta di rapimento contemplativo di potenti immagini evocative. Come il regista che non ricerca mai una lettura interpretativa o un commento di un’opera preesistente, così lo spettatore si concentra sull’atto del suo guardare, vedendosi creare lo spettacolo, nel dare un ordine mentale alle immagini apparentemente sconnesse. Oggi, l’arte non richiede più un autore come produttore, come per Benjamin, ma uno spettatore che nel suo raccoglimento diventa produttore. Ciò è essenziale per tentare di comprendere l’opera d’arte, in una piena reversibilità di guardante e guardato e tramite la soggettività dello spettatore che legge immagini iconiche, incarnate dall’attore. Egli funge da esempio: esso viene esposto, come nel museo dell’orrore in cui la donna viene appoggiata alla lastra trasparente contenente topi grigi: essi sono ciò che resta, e non è poco, del coro tragico.
IL VELO NERO DEL PASTORE – Socìetas Raffaello Sanzio
liberamente tratto dall’omonimo racconto di N. Hawthorne
Messa in scena, scenografia, luci Romeo Castellucci
Musica originale Scott Gibbons
Assistente alla regia Silvia Costa
Assistente alla drammaturgia Piersandra Di Matteo
Sculture e meccanismi Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso
Collaborazione alla scenografia Giacomo Strada
Produzione Benedetta Briglia
Organizzazione Gilda Biasini, Valentina Bertolino, Cosetta Nicolini
Dal 10 al 13 novembre 2011 – Teatro Vascello, Roma
Romaeuropa Festival 2011