Presentato a Il Kino alla presenza del regista Marco Bonfanti e della produttrice Anna Godano, L’ultimo pastore è un progetto totalmente indipendente, finanziato da fondi privati e con un grande successo di pubblico all’estero.
L’ultimo Pastore, di Marco Bonfanti, Ita 2012, 73′
Sceneggiatura: Marco Bonfanti Montaggio: Valentina Andreoli Fotografia: Michele D’Attanasio Musiche: Danilo Caposeno Postproduzione: Andrea Maguolo per Magui Studio Prodotto da: Anna Godano e Franco Bocca Gelsi Produzione: Gagarin s.c.a.r.l., Zagora srl Distribuzione: Luce Cinecittà Interpreti: Renato Zucchelli, Piero Lombardi, Lucia Zucchelli, Gottardo, Giovanni, Margherita e Domenico Zucchelli, I bambini della scuola di via Colletta, Moru e BubuIl Gaì è la lingua dei pastori e Renato Zucchelli è uno degli ultimi uomini in grado di comprenderla. Renato è un uomo pacioso, con lo sguardo bonario, sognante e con una saggezza di un’altra epoca, semplice, ma tutt’altro che semplicistica. Nella prima scena lo vediamo ascoltare dei bambini parlare alla radio della figura del pastore. Il suo viso non viene inquadrato, ma lo sentiamo ridere, quasi a crepapelle. Il pastore ha assunto uno statuto mitologico, come se fosse uno yeti o il minotauro… peccato che lui ne sia la perfetta incarnazione. È da questo principio contraddittorio che prende le mosse la splendida docu-fiction di Marco Bonfanti.
È lo stesso regista ad affermare che il suo sogno di portare le pecore nel centro di Milano si è materializzato e immedesimato nella volontà di Renato di mostrare la sua vocazione ai bambini, ovvero coloro che riescono a entrare in contatto con gli animali, perché «l’amore per gli animali è felicità» in una vita in cui «siamo di passaggio». Attenzione! Non far conoscere, non il tramandare un sapere, bensì un avere la consapevolezza di far aprire gli occhi, di rivelare, o più semplicemente: permettere ai bambini di toccare il vello delle pecore. È morbido? Forse sì, forse no.
L’ultimo pastore è la storia di 700 pecore nel centro di Milano, una lucida follia d’altri tempi portata avanti attraverso una piacevole sceneggiatura che sembra voler mostrare la macchina da presa come un’intrusa nella vita di Renato, sua moglie e dei loro quattro figli. Nel film, che ripercorre tutte e quattro le stagioni della pastorizia, dalla transumanza fino al ritorno a casa, c’è l’inevitabile riconoscimento della palese discrepanza vigente tra la società contemporanea, i mestieri più antichi e la loro passata esistenza. Questa dissonanza non viene portata avanti nel film attraverso un registro puramente drammaturgico e da compianto funerario, bensì mediante una notevole e originale elaborazione che passa dai toni fiabeschi, romantici e ironici della prima parte a quelli più realistici della seconda e a quelli onirici dell’ultima. La scena in cui il gregge entra in città muovendosi sull’asfalto sotto un cavalcavia è l’emblema del passaggio a un tono prettamente surrealistico, reso ancora più evidente dalla splendida fotografia di Michele D’Attanasio e dalle musiche di Danilo Caposeno. Se nella prima parte della pellicola il gregge era movimento sinuoso, coreografico, all’interno di un locus amoenus, nella seconda si evidenzia come un gruppo affaticato, demoralizzato nell’attraversare gli incroci della periferia milanese. Nella terza, invece, ponendo l’accento sul suo essere massa differente che sbarca nell’indifferente, diviene esercito che “marcia” sulla metropoli.
Bonfanti dopo la proiezione afferma che i suoi riferimenti cinematografici sono stati: «Olmi, Herzog e Miyazaki». In effetti, si trova una certa somiglianza tra i personaggi “folli” e “tracotanti di Assoluto” del regista tedesco e Renato Zucchelli, così come è geniale il paragone, proposto allo stesso regista durante un festival in Giappone, tra il pastore e il Totoro del regista giapponese. C’è, infatti, in entrambi la capacità di evidenziare un attaccamento alla natura e alla sua bellezza quasi metafisico, panico e primigenio.
Il film di Bonfanti ha il pregio di portare una ventata di freschezza nel panorama del cinema italiano e consente, soprattutto, di riflettere, senza elucubrare, sui concetti di pastore e gregge. La serenità del protagonista sembra quella di un saggio epicureo anelante il grado zero della vita mediante un’esistenza nomade, libera e dedita al lavoro: «Mi chiamo Renato Zucchelli, faccio il pastore e questo è il mio mondo».