M83: SOUNDTRACK DI UNA FUGA ADOLESCENZIALE

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M83 (Antony Gonzalez)

Album:  Hurry Up, We’re Dreaming

Genere: dream/electro/rock

Collaborazioni: Zola Jesus, NIN

Anno di pubblicazione: 2011

Etichetta: Mute

Sito Ufficiale di M83

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 “Video killed the radio stars” cantavano profeticamente i Buggles: ora l’evoluzione musicale, o forse l’abbrutimento della nostra facoltà d’ascolto, ci porta a saldare tonalità emotive a qualunque successione di suoni più o meno “musicalmente” disposti, ormai accessibili ovunque. Si costruiscono tanti cortometraggi di brandelli di vita quotidiana a cui associamo quelle tonalità – e quindi quei brani – come vere e proprie soundtracks… e le recensioni musicali si battono a suon di automatismi come “atmosfere oniriche” o “sound introspettivo”.

È la realizzazione del sogno wagneriano dell’ opera d’arte totale in cui le più moderne immagini cinematografiche descrivono la progressione sonora, oppure una lynchana estroflessione delle nostre passioni, ormai protagoniste quasi assolute di ogni fruizione estetica? E soprattutto, è un fenomeno di cui possiamo o dobbiamo liberarci?

Non so rispondere. Certo è che Hurry up, We’re Dreaming (Mute, 2011) suggerisce, detta, comanda un ascolto siffatto. Data la ricchezza di influenze differenti, è quasi inutile un’esegesi stilistica del songwriter francese M83 (al secolo Anthony Gonzalez) che dal lontano 2003 condisce nell’insalatiera dello shoegaze ingredienti ambient, elettronici, indie e rock mescolando il tutto con tanto, tanto fashion sound. Addirittura ascoltando qualche traccia del disco mi si para davanti un pettinatissimo Bryan Ferry che balla come uno degli A-ha mentre suona l’assolo di synth di Shout dei Tears For Fears (possiamo immaginare questo come l’effetto di qualche droga).

Certamente c’è forte odore di anni 80: il che non significa odore di vecchio, perché in realtà quel periodo, come ogni pezzo di questo doppio album, parla di una giovinezza senza fine. Vitalità e ribellione; avventure, amori e desideri di cambiare il mondo di ragazzi che non sanno ancora cosa faranno da grandi. Gli ampi sospiri epici dei tappeti di tastiere e organi, accompagnati dalle cadenze rocciosissime di chitarre (che non hanno nulla da invidiare alle esplosioni del post-rock) in Echoes Of Mine ci rammentano gli ideali ispiratori della rivoluzione francese: anche se qui parliamo di una rivoluzione frivola, che oggi si compirebbe cliccando “mi piace” su una pagina facebook. Alcune tracce del disco sembrano costruite sulla base di un algoritmo scoperto da Gonzalez anni addietro: ad esempio, è spaventosa la somiglianza strutturale tra la nuova New Map e Don’t Save Us From The Flames contenuta in Before The Dawn Heals Us (Mute, 2005) – squadra che vince non si cambia. Con Midnight City ci sentiamo proiettati in un romanzo di Moccia dai toni indie anti-borghesi (e per questo forse fin troppo borghesi) in cui l’entusiasmo disperato di 15enni solitari costruisce piani per impulsive fughe d’amore in metropolitana.

Bel disco: un ascoltatore maturo prova tenerezza nel riconoscere moti d’animo adolescenziali forse dimenticati. La vittoria del disco sta nell’aver capito come si possano esprimere banalità senza banalizzare.

Astenersi puristi.

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