Accade, seppur troppo di rado, che ci si trovi a riflettere sul proprio ruolo all’interno della società. Qual è il mio scopo, a che serve ciò che faccio? Come contribuisco a far vivere meglio le persone intorno a me? E soprattutto, contribuisco?
Chi opera e lavora nell’ambito dell’arte e della cultura si trova oggi in un momento di profonda crisi, economica, valoriale, identitaria. La cultura è osteggiata dalla politica, omessa dai media e, cosa ancor peggiore, incompresa dal proprio pubblico che non vi si riconosce.
Ma che cosa è successo? Come mai i cosiddetti “operatori culturali” non riescono più a lavorare, a far sentire la loro voce, a definire il loro ruolo, a percepirsi e ad essere percepiti come utili all’interno della società?
Alcuni potrebbero dire che non è più il momento, che ci sono priorità diverse, che la gente non è interessata, non ha tempo o è superficiale; altri invece che la cultura è una cosa snob, che si è auto-esiliata su un’isola di intellettualismi volubile ed elitaria e l’elitarismo si sa, se non è almeno a 6 zeri, non fa mercato.
Dapprima di fronte a tali supposizioni verrebbe voglia di dire che sono errate, incomplete, faziose. Dunque un bravo editorialista dovrebbe attaccarle o addolcirle, dire che non è vero che la gente non vuole la cultura e che gli artisti e gli intellettuali sanno come rivolgersi alle persone; che c’è solo bisogno di un nuovo spirito, di una nuova spinta, di un nuovo manifesto, ed ovviamente, di un nuovo bonifico bancario che permetta alla cultura di sopravvivere, di respirare, di produrre la Tosca! Finalmente! Ancora una volta.
Ma io non sono un bravo editorialista e più che dare affrettate risposte preferisco pormi alcune domande:
se fosse vero che la massa è superficiale, che non è interessata e non ha tempo?
Se fosse vero che la cultura si è chiusa in un intellettualoidismo fine a se stesso che la rende sempre più miseramente autoreferenziale?
Se fosse vero tutto? Cosa significherebbe?
A mio parere, per la reale risoluzione di un problema è importante prendere in considerazione tutti gli scenari possibili e secondo lo scenario che si aprirebbe di fronte ad una crisi così profonda, verrebbe da dire che la cultura sta perdendo non solo la sua identità ma anche la sua funzione.
Di fronte ad una massa reduce da 20 anni di coma televisivo, schiacciata da ritmi di lavoro sempre più oppressivi e appesantita da una alienazione sottile che si manifesta in uno sgretolamento palese delle relazioni sociali, la cultura cosa può fare? Continuare a rivolgersi all’élite borghese pagante che va a teatro e alla mostra perché è da farsi? Proseguire nell’opera di creare un pubblico di addetti ai lavori quasi a mo’ di setta in cui chi oggi applaude domani sarà di sicuro applaudito? Oppure aprirsi alla realtà e coinvolgere anche color che son d’altri gironi?
L’arte e la cultura dovrebbero aver la funzione di far nascere domande, di porre in discussione il conosciuto, di creare dubbio e apertura, di avvicinare le persone alla propria sensibilità, alla propria anima, a ciò che al contrario dell’intelletto è utile per crescere emotivamente, empaticamente. Il ruolo della cultura dovrebbe essere quello di educare la società ad evolversi a livello emotivo (e solo in funzione secondaria e opzionale a livello intellettivo) perché solo un cambiamento profondo, viscerale, lascia il segno nell’evoluzione di se stessi e della società.
Se vogliamo fare un passo avanti dobbiamo farlo uniti e la cultura così come la conducono burocrati, tecnici e intellettuali disonesti, non è per includere nulla se non la sua piccola corte. Prima di tutto pensiamo ad educare le persone alla cultura, dimostriamo apertura, riappropriamoci della semplicità e facciamo sì che chiunque possa fruirne e potersi emozionare, poter riflettere.
Il nostro intento dovrebbe essere quello di portare a teatro, al cinema, in libreria, nei musei, negli spazi performativi alternativi, coloro che non ci sono mai andati, che preferiscono guardare la tv o seguire l’ultima saga di Trasformers perché è più facile. Dobbiamo includere tutti, rivolgerci a loro ed educarli pian piano al mondo dell’arte. Ma lo sforzo dobbiamo farlo noi! Se non arriviamo alle persone, non ce la prendiamo con loro appellandole come superficiali; cerchiamo piuttosto di rivedere i nostri metodi, di metterci in discussione, di parlare in modo più chiaro. Insomma, lasciamo gli enti lirici e scendiamo in strada, nelle piazze, sulla metro, nelle case, facciamo sì che tutti possano riconoscersi in ciò che creiamo e che possano parteciparvi, sentendosi accolti. Lavoriamo verso l’inclusione, verso la diffusione e l’educazione. Solo così potremo rinascere dalla situazione di zombismo in cui siamo e costruire una cultura che sia sempre meno dell’io e sempre più del noi.
“Dio del cielo se mi vorrai amare scendi dalle stelle e vienimi a cercare.”
Fabrizio De Andrè