Titolo originale: O Thìassos
Regia: Theo Anghelopoulos
Sceneggiatura: Theo Anghelopoulos
Fotografia: Giorgios Arvanitis
Montaggio: Takis Davlopoulos, Giorgos Triandafyllou
Cast: Eva Kotamanidou, Aliki Georgouli, Vangelis Kazan, Stratos Pahis, Petros Zarkadis
Produzione: Giorgos Papalios, Lefteris Haronitis, Christos Palyannopoulos, Giorgis Samiotis
Paese: Grecia, 1975
Durata: 230’
Terzo lavoro dall’ampia e acclamata filmografia del maestro greco Theo Anghelopoulos, da poco prematuramente scomparso, figura capace di portare la sua Grecia, da sempre terra di confine e di cultura sotto molteplici punti di vista, giustamente al centro del mondo cinematografico di un certo livello, destando l’attenzione e l’ammirazione di un parterre europeo spontaneamente rivolto -a volte troppo di frequente e con eccessiva leggerezza- alle pellicole di casa propria o d’oltreoceano. Questa lunghissima opera del 1975 che arriva a sfiorare le quattro ore è concepita come secondo momento di una trilogia che la pone tra “I giorni del ’36” (1972) e “I cacciatori” (1977) e la rende parte di un complessivo progetto che mira a ritrarre la storia greca: in particolare ne “La recita” si viaggia tra retaggi di monarchie, invasioni straniere, dittature militari, resistenze armate, guerre mondiali, finte democrazie, regimi camuffati, faziosità politiche postbelliche, antifascismo, antinazismo, anticomunismo e tutte le deformazioni che ne sono generate. Una parabola tormentata sulla nascita della Grecia moderna, con coscienza autonoma e identità di popolo, sublimata in un atto artistico e non meramente compilatorio. In questa pellicola seguiamo il lento magmatico sviluppo di un travagliato periodo -individuabile nella più ampia delle ipotesi, tra il 1922 e il 1952- ripercorso attraverso le avventure di una compagnia di attori girovaghi, guitti da pochi soldi, con tanto mestiere e troppa sorte sulle spalle, in viaggio per il paese con una delle loro più note e apprezzate esibizioni di repertorio, “Golfo la pastorella”, dramma bucolico-erotico di tradizione, simile nei contenuti al più frequentato “Giulietta e Romeo”. Le loro vicende interne, a volte reali, a volte fittizie, a volte entrambe le cose, sono ricalcate su quelle del ciclo epico degli Atridi e in particolare ci si concentra su quello che fu il tragico ed esemplare destino di Oreste e della sorella Elettra, figli di Agamennone e Clitemnestra. Un padre che sbaglia, una guerra che lo porta lontano, una moglie che non aspetta e tradisce, un figlio che si vendica, una sorella che sconterà l’attesa e la lealtà verso il fratello. A queste figure si aggiungono e più spesso si sovrappongono quelle tipiche della storia, dal partigiano al fascista, dal soldato al traditore, secondo un intreccio drammaturgico nobile e significativo, di grande respiro e mirate prospettive, che intende dare agli eventi materia e materialismo. A tal proposito, non è casuale, né va tralasciato il fatto che l’inizio delle riprese del film avvenne ancora sotto il regime dei colonnelli, pur presagendone l’epilogo e che la sceneggiatura non fu predefinita, ma data agli attori e al resto della troùpe giorno per giorno. Ciò contribuisce a dare nerbo e vigore all’opera rendendola necessaria oltre l’occhio di chi guarda, poiché dal vivo si è respirate quella stessa aria riprodotta in scena, pur se straniata –a volte-, ironica o ipertestuale, palese debitrice della drammaturgia brechitana cui Anghelopoulos non fa mistero di ispirarsi.
A ciò si collega la musica, di una bellezza e maestria imparagonabili: aleggia in ogni angolo e svetta da protagonista; attende limpida, onesta, ingenua, beffarda e sgorga malinconica e struggente, attrice anch’essa, disperatamente autentica, univoca ed universale, completa la scena e la imprime nella memoria come fosse un capitolo a parte. Arriva laddove parole o inquadratura mancano il bersaglio o avrebbero anche solo potuto mancarlo. E anche questa qualità è brechtiana: le canzoni erano il mezzo di comunicazione prediletto dal drammaturgo tedesco, da cui Anghelopoulos saccheggia cipiglio politico e civile, nonché contatto improvviso e decisivo con il pubblico, chiamato a pensare, ad essere forza in campo, animata e non passiva, diventando diretto destinatario nello specifico dei tre lunghi monologhi fatti in macchina e rivolti allo spettatore del padre, della sorella e dell’ esule, non più attori, ma testimoni storici di una realtà che impone l’urgenza di essere denunciata. Si balla, si canta, si inneggia per una festa, per una manifestazione, per una liberazione, per far finta di essere ancora vivi o per esserlo davvero, per esorcizzare la morte o darsi coraggio, per continuare a credere ancora in un misero, estenuante, impagabile giorno in più. Così la melodia diventa azione, omnicomprensiva e risolutiva del singolo quadro e si sfocia a passi leggeri dalla storia pura alla vita pura, salvo poi rientrare negli eventi, con poco sforzo e nulla più, in un dentro-fuori che rende onore al merito di chi sa architettarlo, intenderlo, sostenerlo e veicolarlo.
Il livello temporale è sfasato più volte e più volte si passa con un solo sguardo da un’epoca ad un’altra, come a voler sottolineare che il passato e il presente non vivono separatamente, ma sono frutto di un unico movimento sempre vivo, condiviso e reiterato, in una circolarità che rimanda alle strutture delle tragedie classiche eppure se ne distanzia inneggiando ad un progresso, inscenando sempre qualcosa da cui trarre esempio ed evoluzione. Storiche le lunghe inquadrature, che hanno più volte fatto accostare il maestro greco al nostro Antonioni, e, in particolare, spiazzante e potente è quel sostare negli spazi vuoti, dove si raccolgono con geniale elementarità suoni e rumori di azioni fuoricampo: tutto sembra implodere ai nostri occhi, ma esplodere negli immaginari amplificandone la portata emotiva. Enormi pianisequenza, temporalmente non coincidenti, fanno scuola e dimostrano che arrivare al senso crudo di qualunque storia non significa banalmente rispettarne la cronologia, ma anche renderne lo spirito contraddittorio, recidivo e selvaggio che vi alberga. Di fatto, l’ultima inquadratura è la stessa di quella iniziale: in mezzo c’è “solo” il tempo e l’intreccio dinamico tra passato presente, mito e teatro, guidato da quell’antica com-passione tragica che illumina di umanità ogni coincidenza storica.
Un omaggio detto, fatto e profondamente amato di questo compianto regista alla vita come diritto e non merito; all’insostituibile intelligenza umana; all’ideale come arte inalienabile nonché atto d’amore e di fiducia verso chi siamo e chi saremo; e alla Grecia dei padri e dei figli, bella, mai appariscente, madre più di altre “lusingate colleghe” di spessore e identità.