Maestri: SIDNEY LUMET – LA PAROLA AI GIURATI

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Titolo originale: 12 angry men

Anno: 1957

Paese: Stati Uniti

Produttori: Henry Fonda, Reginald Rose (United Artists)

Regia: Sidney Lumet

Soggetto e Sceneggiatura: Reginald Rose

Fotografia: Boris Kaufman

Montaggio: Carl Lerner

Musiche: Kenyon Hopkins

Interpreti: Henry Fonda, Lee J. Cobb, Jack Warden, Joseph Sweeney, Martin Balsam, Ed Begley, E.G. Marshall, Jack Klugman, Robert Webber, John Fiedler, George Voskovec, Edward Binns.

Durata: 96 minuti

La parola ai giurati è la prima prova alla regia per il cinema da parte di Sidney Lumet. Uscita nel 1957, la sceneggiatura è stata ricavata da un adattamento dell’originale soggetto scritto per la tv da Reginald Rose nel 1954. Il piccolo schermo è il mondo da cui proviene questo regista, dove ha diretto drammi come The Alcoa Hour e Studio One. Per questo lavoro ricevette l’incarico dall’attore protagonista Henry Fonda, il quale co-produsse il film assieme a Rose. Le riprese durarono 17 giorni, dopo una breve e dura serie di prove, con una spesa di 340.000 dollari. Per l’indimenticato attore fu l’unica produzione nella sua carriera.

Il giudice fornisce le ultime indicazioni alla giuria popolare, composta da dodici persone più due di riserva, e riassume il caso. L’accusato è un giovane di diciotto anni, reo di aver assassinato il proprio padre. Seguendo la legislazione statunitense, tutt’ora in vigore esattamente come allora, il verdetto dovrà essere unanime. La colpevolezza condannerebbe a morte il ragazzo. Dopo questo breve incipit, il film prende corpo dal momento in cui i giurati si riuniscono nella stanza e iniziano la discussione, durante la quale le singole personalità emergono. La difficoltà di arrivare all’unanimità deriva soprattutto dallo scontro tra coloro che, a causa dei loro pregiudizi, non danno valore al peso del ruolo che ricoprono e si limitano ad accusare, e chi, invece, cerca di dimostrare l’innocenza del ragazzo con ragionevolezza. Inizialmente l’unico ad avere dubbi è il giurato numero 8: Davis (Henry Fonda). Dimostrando la sua idea attraverso l’efficace utilizzo delle prove, specialmente quella in cui inscena la camminata zoppa di un anziano testimone e quella dell’arma del delitto, ossia un coltello a serramanico, e che il processo in aula è stato gestito in maniera approssimativa dall’avvocato d’ufficio in difesa del diciottenne, convince uno ad uno gli altri giurati, riuscendo ad abbattere pregiudizi e superficialità.

La struttura dell’opera vuole mostrarci come il sistema possa sbagliare, specialmente se, durante il processo in aula, vi è una certa disparità tra chi accusa e chi difende. Trattandosi di qualcosa di facilmente pilotabile, il film ci fa riflettere sul reale significato della parola “giustizia” e, allo stesso tempo, sulla correttezza di ciò che è scritto sulla legislazione. Essa non è in grado di comprendere gli uomini e le emozioni di cui sono fatti. Da qui nasce la frattura tra chi non si fa abbindolare e utilizza la ragione, assumendosi il coraggio di dire che in questo caso tutto il processo è sbagliato, e chi, invece, muove un’accusa tanto perché deve farlo e preferirebbe occuparsi dei propri affari. Non è una coincidenza, infatti, che il primo a cambiare il proprio voto sia il più anziano di tutti, senza dubbio il più saggio, mentre l’ultimo a farlo sia un padre che ha un rapporto conflittuale con il figlio. Ogni personalità, egregiamente curata, vorrebbe emettere il verdetto di morte per tanti motivi che, però, nella maggior parte delle situazioni, non hanno niente a che fare con ciò di cui si stanno occupando nella loro veste di giurati, mentre chi crede alla concretezza dei fatti e delle testimonianze si accorge di essere stato indirizzato verso l’accusa, senza aver usato la propria testa. Inoltre, se inizialmente Davis è l’unico a non ritenere colpevole il giovane, è soprattutto per una ragione di cuore. Mandare a morte una persona che ha davanti a sé tutta la propria esistenza da vivere merita una valutazione attentissima. Il valore della vita è qualcosa che la giustizia non è in grado di comprendere, in quanto si limita a condannare o a scagionare un imputato.

Notevole il lavoro fotografico presente in questa pellicola in bianco e nero. Si nota chiaramente come Lumet curi molto questo aspetto, grazie alla sua esperienza di direttore della fotografia e alla collaborazione del noto Boris Kaufman. Essi riescono a rendere palpabile una sensazione di claustrofobia. All’inizio partono con inquadrature grandangolari posizionate al di sopra degli sguardi, allo scopo di distanziare i soggetti, per poi stringere le inquadrature sempre di più. Le ultime riprese sono, infatti, quasi tutti primi piani con un’angolatura più bassa, il cui effetto è quello di accorciare tale distanza. Inoltre, l’idea di girare il 99% del film all’interno di una stanza ha sicuramente contribuito al successo di quest’opera e al lancio di Lumet nel mondo del cinema.


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