Titolo originale: Dog Day Afternoon
Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura: Frank Pierson
Fotografia: Victor Kemper
Tema musicale: Amoreena di Elton John
Montaggio: Dede Allen
Produzione: Artists Entertainment Complex
Cast: Al Pacino, John Cazale, Charles Durning, James Broderick, Chris Sarandon, Beulah Garrick
Paese: U.S.A.
Genere: drammatico
Durata: 124’
Come una rapina in banca possa diventare, suo malgrado, “spettacolo” sociale: inaspettata rappresentazione di una umanità inumana, mediocre e amorale, intollerante, frenetica, insopportabilmente tragicomica, tremendamente attuale. Arbitraria in tutto, contro ed oltre ogni ragionevolezza, sapientemente dipinta in un’iperbole delirante senza remore, né pudori. La vicenda trae spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Broooklyn 22 agosto 1972, in un pomeriggio caldo, soffocante, tre uomini rapinano una banca: il più giovane subito abbandona, “perché non se la sente”. Restano in due, Sonny (Al Pacino) e Sal (John Cazale). Sono entrambi reduci del Vietnam, sanno che vuol dire uccidere, sanno che significa prigione. Eppure o forse proprio per questo non amano la violenza, non cercano lo scontro, nè vogliono il terrore; sembrano persino non avere un piano. In effetti le cose, partite male, procedono in peggio poiché i valori della banca sono stati da poco prelevati e le casse sono sostanzialmente vuote. In più, a poco meno di mezz’ora dall’inizio dell’assalto la polizia allertata circonda in massa l’edificio. Pattuglie e tiratori scelti su tutti i lati; supervisione dei federali dell’FBI; reti televisive con annessi giornalisti-sciacalli pronti a filmare il sangue in diretta; una folla di curiosi, che grida, inneggia, addita, condanna, senza neanche sapere bene chi o cosa. Questo lo scenario che in poco tempo prende forma attorno alla tana dei rapinatori. Sonny e Sal non hanno scelta: si barricano dentro con gli ostaggi, che rilasceranno via via ogniqualvolta una delle loro richieste verrà esaudita. E’ Sonny a trattare con gli agenti, a fare avanti e indietro, dentro e fuori la banca, a tenere tranquilli gli ostaggi e soprattutto Sal, l’amico e complice, molto più insicuro e nervoso, anello debole che potrebbe cedere da un momento all’altro e far precipitare la situazione nel sangue. Il piano è ottenere un pullmann che li porti fino ad un aereo e con quello fuggire via, lontano, in un’altra nazione. Nuova vita, nuovo mondo, dimenticare, provare ad essere felici. Ma, quando a negoziare con Sonny non è più il capo della Polizia Municipale bensì l’agente Sheldon dell’FBI, la situazione cambia: ad un passo dal loro aereo e dalla libertà, la lunga corsa di Sonny e Sal viene interrotta freddamente e vigliaccamente. E “tutto il resto resta cronaca“.
Uscito nel 1975, il film riscosse ottimi consensi di critica e ben sei nomination agli Oscar, di cui una vinta, per la sceneggiatura di Frank Pierson. Quest’ultima, rifacimento romanzato di un articolo della rivista Life che riportava la cronaca della vera rapina durata ben 14 ore di assedio mediatico e poliziesco, dimostra una non semplice organicità: struttura asciutta, ben ponderata, in buon equilibrio tra la tensione e una spiazzante quotidianità, apre in modo non voluto eppure inevitabile al grottesco e al paradosso. Così fin da subito, tra il sorriso e la suspense, s’instaura un’atmosfera straniante né da thriller, né da reale poliziesco: a tali immaginari, più volte visitati dallo scomparso Lumet, si rende omaggio con alcuni punti fermi classici –polizia, federali, ostaggi, negoziati, intrusione dei media- e poi si vola altrove. Lo sguardo è diretto, ma mai invasivo e si concentra su diversi aspetti che ritroviamo in altri capolavori del regista come Serpico (1973) o Quinto potere (1976). C’è la violenza mediatica che genera l’isteria collettiva, una delle forze più manipolabili che la società possa produrre, e perciò stesso fortemente pericolosa e difficile da controllare; c’è la supremazia dei distintivi, spesso più crudele, odiosa ed infingarda dei reati da cui professa di preservare, certo non un modello sano da prendere ad esempio; c’è la spettacolarizzazione e conseguente spersonalizzazione dell’intimità della vita comune, eviscerata, snaturata, degradata a fenomeno da baraccone. Così ad esempio l’amore è ridicolizzato, deviato, giudicato, non trova spazio, tempo o parole, come dimostra Sonny letteralmente piegato al telefono con Leon, il giovane che egli “ha amato ed ama più di quanto un uomo possa mai amare un altro uomo” e di cui vorrebbe esaudire il più grande desiderio, ossia cambiar sesso, proprio con il denaro della maledetta rapina. Denaro, però, che serve anche alla moglie di Sonny e ai suoi due figli che non fa in tempo a salutare, sempre appeso alla stessa cornetta, sommerso da colpe, recriminazioni per tutte quelle cose che potevano essere e non sono state. E’ ancora denaro, quello che Sonny getta beffardo, provocatorio in bocca ai fanatici accorsi ad acclamare eroe un derelitto qualunque, salvo poi, alla prima occasione utile, disprezzare lui, ma non le “sue” banconote.
E’ una natura morta e marcia, che si finge viva sulla pelle di chi, non avendo potuto scegliere, è facile preda; atteggiamento questo, istintivamente americano, che racconta di una violenza che non si vede, di una guerra combattuta sempre altrove e sempre lontana; è la favola di un mondo grande, ricco e felice, in cui il lieto fine non è concesso a tutti.
E così accade nel film: non c’è sangue, né brutalità e l’unica prevaricazione percepibile è quella di coloro che noi chiamiamo giusti su coloro che noi chiamiamo ingiusti. Sembra tutto un errore tragicamente normale, a tal punto da far presagire un’ implicita assoluzione: il giorno sbagliato, la banca sbagliata, l’orario sbagliato, i compagni sbagliati, la famiglia sbagliata, la polizia sbagliata. Dov’è il vero torto?
E poi il tempo, criminale, lui sì, per eccellenza, che trascina e sfinisce tutti i personaggi in uno stillicidio senza tregua, mentre l’afa aumenta, l’ossigeno scarseggia e la macchina da presa indugia netta, calma su ogni azione, seguendone il naturale percorso fino alla fine, goccia a goccia, come il sudore sulle fronti dei “topi in gabbia”. Si ha la cautela di inanellare fatti, mai commenti, cosicché chi osserva possa da sé e con ben pochi pregiudizi farsi un’opinione autentica sulla portata di ciò cui sta assistendo.
Il ritmo è scandito dagli occhi dei protagonisti: Al Pacino è un indomito leone, che si scatena nell’aizzare la folla incivile e disgustosa che lo attornia; da solo inneggia alla giustizia sociale, ad Attica, che nel 1971 fu penitenziario di scandali, razzismo e di giustizia sommaria ai danni di chi definito colpevole, perdeva ogni diritto di fronte alla legge. Il suo Sonny si rivolta febbrile all’oscena morale di cui si sente suo malgrado investito, cova l’ansia e la pressione in un sottopelle che traspare tutto dai suoi occhi, enormi saette proiettate sempre nell’attimo seguente, che lampeggiano stanche delle ore accumulate, ma non crollano; il corpo sale e scende, cade e si rialza, scatta, si destreggia, s’impunta, si accascia in un crescendo di emozioni che rendono leggibile a prescindere dalle parole tutto ciò che sta accadendo dentro e fuori la banca. Perfetto contraltare al dinamismo di Pacino è la stasi del suo comprimario, John Cazale, testa bassa, sguardo stretto e raso terra, striscia ed incombe con il suo respiro e la sua silenziosa, scomoda presenza: ha una fisicità e dei costumi fuori dal mondo e dai tempi, inquieta e fa tenerezza, allontana e supplica chi gli sta accanto, vorrebbe solo finire, non essere lì, salvarsi. Perché di fondo è, anzi, sono entrambi dei puri. Non certo criminali, non ne hanno le facce, né tantomeno le reali intenzioni: aiutano gli ostaggi, li curano, danno loro da mangiare, fanno solo cose normali. E osservandoli è facile cogliere la solitudine che li opprime, propria di chi è stato tradito, emarginato; due rigettati dalla società alla quale pure hanno prestato servizio e non a poco prezzo sotto l’incorreggibile ombra del Vietnam.
Eloquente lezione sociologica o semplice ribaltamento di prospettiva, la pellicola non permette più di fissare il discrimine tra giusto e ingiusto dove per legge, tradizione o buon senso ci hanno insegnato a porlo. Trovarsi a fronteggiare senza accorgersene, un nemico che ha la nostra stessa faccia, o che forse non ha mai avuto né “una faccia” né “quella faccia”, è destabilizzante. E fa riflettere su quanto sia semplice nascondere la verità dietro uno striscione, una divisa, un diritto, una pelle. E’ il modo più subdolo e dannoso di far dilagare l’ignoranza, avere un capro espiatorio sicuro e far dormire tranquilla l’intera comunità. Così non si pensa più. Tanto per carne da macello fresca c’è sempre tempo. Appare questo, oltre trent’anni dopo, il monito sottile e lungimirante di Lumet ad un’America che deve fare i conti con i mostri e le deformazioni cui probabilmente ha dato adito la sua cinica ed istituzionale libertà da esportazione. Ma spesso guardarsi allo specchio, soprattutto in un inutile, balordo, banale, soffocante pomeriggio di agosto, e riconoscersi in chi spara a due moscerini con un cannone, non è mai cosa piacevole. O almeno non dovrebbe esserlo.